Snow On Sea

storia a capitoli | romantico | fantasy | thriller

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  1. aphãea
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    C A P I T O L O D U E



    Da qualche giorno cerco di comportarmi bene. Comportarsi bene significa essere sottomessi e accondiscendi, e riuscivo a sopportarlo solo in vista di un bene maggiore. Se dimostro di essere fedele e rassegnata, ho più probabilità di cogliere allo sprovvista il nemico.
    Sto ragionando come un animale, penso appena mi sveglio. Sono le otto e mezza di mattina, e io sono ancora dove non vorrei essere. A distanza di due anni, ho capito che non sono in un sogno.
    Sono stata trasformata in lupo a quindici anni, quando sono stata morsa per la prima volta da un licantropo, che mi ha trasformata. Non mi ricordo chi fosse, ma so che Rhydian e gli altri lo sanno. Come si suole in queste situazioni, non mi ricordo gran che. Festa, bosco, morso, dolore e risveglio in questa casa nella foresta. Molto spesso mi convinco che devo essere qua per una qualche ragione, perché mi riesce difficile pensare che una ‘persona’ si diverta a rovinare la vita agli altri solo per divertimento. O forse non dovrebbe esserlo.
    Ero una ragazzina con una vita normale, due genitori, un fratello di ventidue anni che sentivo una volta all’anno, una media scolastica normale, amici umani e la passione per la lettura.
    Ma anche se i tre ragazzi in questione mi avrebbero permesso di ritornare a casa, so che non sarei più riuscita a condurre la mia esistenza di prima. Molte cose non sarei riuscita a spiegarle, e avrei rischiato di far del male a chi volevo bene. Questo l’ho capito solo dopo svariati pianti isterici e liti violente all’interno della casa.
    Questo però non giustifica un bel niente, non giustifica il fatto che abbiano prepotentemente inserito la licantropia nella mia vita, senza lasciarmi via di fuga. Certo, mi offrono protezione (ma non da loro stessi), un luogo dove essere me stessa in sicurezza e vitto e alloggio. Tuttavia, non importa quanto qualcuno riesce a darti, se è meno di quello che ti ha tolto.
    Ho smesso di passare le mie giornate a chiedermi perché sono diventata un lupo. Forse c’è un motivo nobile, o buono, da qualche parte. Ho smesso quando, però, ho capito che non c’è bontà in Rhydian, Coleen o Jared. È possibile che io sia qua per essere il loro passatempo? Questa spiegazione non mi soddisfa. Tanto per cominciare non sono mai finita nel letto di nessuno, e da come mi trattano sembra che mi odino, che mi tengano qui controvoglia.
    Sono stata portata via dalla mia vita, sono stata trasformata in un essere sovrannaturale da non so chi e non so perché. Non è giusto, perché credo di meritarmi una spiegazione. Ho tentato di indagare, di fare qualche domanda, di scoprire qualcosa, ma è sempre finita male. A quanto pare, devo essere tenuta lontana dalla verità. Ma in attesa di cosa?
    Questi sono pensieri che se prendono il sopravvento mi trascinano giù con loro e quindi decido di ricacciarli nel fondo della mia mente.
    Scendo dal mio letto e esco dalla camera. Non mi preoccupo di fare piano per non svegliare qualcuno, mentre mi avvicino alle scale.
    Dopo i gradini in legno che mi separano dal piano terra, giro a sinistra per entrare in cucina.
    Un po’ come quando mi ero appena insediata lì, sono nervosa all’idea di stare nella stessa stanza con gli altri licantropi. Ho paura possano leggermi negli occhi qualcosa, possano capire come mi sento e cosa ho intenzione di fare.
    Stai calma, sentono la tua paura. Ragiono, ancora secondo la logica degli animali. Ma è con essi che ho a che fare.
    Ho intenzione di fare colazione, semplicemente. Jared sta cucinando delle uova, Coleen sta pigramente tentando di farsi un caffè.
    - Buongiorno – mi schiarisco la voce.
    - Buongiorno – dice Jared, volgendomi un’occhiata.
    Coleen mormora qualcosa di simile ad un saluto impastato. Fredda routine.
    Mi dirigo verso il frigorifero, e mentre passo dietro a Jared mi chiede se voglio un uovo. Alzo un sopracciglio stupita e irritata declino l’Offerta. Mi da fastidio che si comporti da bravo ragazzo sulle sottigliezze e non sulle cose che contano davvero.
    - Rhydian non è ancora tornato? – sento che Jared chiede all’altro.
    Prendo dal frigo un’arancia e intanto cerco di origliare.
    Coleen sembra capire la domanda solo dopo un po’ – Cosa? Ah no. Io sono venuto via alle quattro.
    Facendo finta di niente, mi siedo al lato destro del posto a capotavola. Intuisco che si riferisce alla nottata che hanno passato lui e Rhydian, il quale evidentemente non è ancora rincasato.
    - C’era tanta gente?– mormora Jared abbassando la fiamma, rivolto a Coleen.
    Questo si versa il caffè in una tazza e si siede di fronte a me. – È la discoteca più famosa di tutta la Contea di King, ovvio che sia sempre pieno. Oserei dire di tutto lo stato di Washington!
    - Come mai sei tornato così presto? –
    Interessante, la sua idea di ‘presto’.
    L’amico alza le spalle. – La musica faceva schifo. E chi torna prima prende la macchina, come sempre. E io non volevo correre.
    Alzo un sopracciglio mentre inizio a sbucciare il mio arancio. Ora entrambi i ragazzi sono seduti al tavolo, uno mangia uova e bacon e l’altro sorseggia il caffè.
    - Ah, per la cronaca, sta piovendo da quando sono tornato.– conclude.
    Sbuffo. – Strano.
    Coleen sembra improvvisamente accorgersi della mia presenza, e mi fissa con i suoi occhi beige, un’espressione stranita da maniaco stampata nello sguardo.
    - Prevedono piogge torrenziali da qua a qualche giorno. Mi sa che dovremo aspettare ancora un po’ per ritornare lupi – dice Jared, ma viene ignorato.
    Sto fissando l’altro ragazzo almeno con la stessa intensità soffocante che sta usando lui.
    - Ti sei fumato qualcosa per caso stanotte, mentre facevi il lupetto ribelle? – Gli sorrido beffarda.
    Non distoglie lo sguardo. – Avrei voluto ma gli spacciatori che ho incontrato erano troppo cari. Tu piuttosto avresti bisogno di una bella iniezione di simpatia in vena – Scandisce.
    - Tu ne hai delle scorte, a quanto pare. – gli faccio il verso, imitando il suo tono di voce.
    Azzanno uno spicchio d’arancia.
    - Dio, si può fare colazione con un’arancia? Gwen, sei la vergogna dei licantropi e dei carnivori – Mi schernisce subito dopo.
    Anche se sono battute, commenti innocui, mi danno fastidio. Afferro un pezzo di buccia abbastanza grosso e con molta nonchalance lo strizzo nella mia mano destra, rivolgendo lo schizzo acido dritto alla sua faccia.
    Coleen si mette una mano sull’occhio. – Sei una bambina del cazzo.
    - Invidioso perché esiste qualcosa di più acido e irritante di te?
    Strappo in due la buccia. Se avessi avuto Rhydian davanti, avrei fatto una brutta fine, come ogni volta che mi spingo troppo oltre con le mie battute. Non impari mai? Mi chiederebbe. La verità è che non impererò mai ad essere qualcun’altra, mi dico sempre, e non devo incolparmi se me le vado a cercare. Potrei farmi furba e fare buon viso a cattivo gioco, ma non permetto loro di togliermi anche il mio carattere. Che poi sia un caratteraccio, è stata solo una spiacevole coincidenza.
    Buon viso a cattivo gioco. Mi rendo conto che ho appena mandato a monte il piano, il quale prevedeva che mantenessi un comportamento idoneo e educato. Mi mordo un labbro, dandomi dell’idiota incapace di sacrificare l’orgoglio per una causa di forza maggiore.
    O forse no, forse è meglio così. Insomma, un mio atteggiamento troppo diverso farebbe insorgere dubbi no? Spero con tutto il cuore che questa considerazione non sia un appiglio di speranza che mi sono inventata ma una deduzione logica.
    - Dovresti scopare di più, ragazza. Jared, caspita! Avevi casa libera ed una ragazza a pochi metri, potresti fare un po’ di volontariato – sogghigna.
    La voce di quell’idiota interrompe i miei pensieri. Le sue parole mi fanno male. Se è vero che è quello meno violento del gruppo, Coleen spesso non misura quello che gli esce dalla bocca. Oppure semplicemente lo fa apposta, semplicemente vuole farmi male come gli altri ma sceglie una tattica diversa, per assicurarsi che io venga colpita su ogni piano, fisico e psicologico. Ma non ho bisogno di lui per sapere che ormai mi sono ridotta ad un atto di carità, verso il quale non investirebbe nessuno. Deglutisco a vuoto e non sono in grado di rispondere. Ho lo sguardo basso, che giustifico togliendo i pelucchi bianchi dal frutto che ho in mano.
    Fortunatamente il discorso si interrompe lì, perché la porta d’ingresso si spalanca con veemenza. Sfortunatamente, però, è Rhydian che fa ritorno. Mi irrigidisco quando entra in cucina, e realizzo – anche se già lo sospettavo – che la mia paura cresce esponenzialmente quando sono tutti e tre insieme. In branco. Quando sono così, cambiano carattere. Smettono di pensare con la propria testa: persino Coleen, da idiota con un cervello accetabile, diventa una testa di cazzo patentata.
    Tutti e tre non riuscirei mai ad affrontarli. Mi sento esattamente come l’ultima ruota del carro del branco, quella che viene lasciata indietro e contro la quale tutti gli altri vanno addosso a piacimento, perché l’anello debole. Che non hanno paura di perdere, perché inutile.
    Ma da soli sono deboli. Esulta una vocina nella mia testa.
    Nel mondo animale è così che funziona, ma io teoricamente vivrei in un mondo umano.
    Rimpiango di non essere mai riuscita a definire a quale delle due parti appartengo. O meglio, so che appartengo ad entrambe, ma devo, anzi devono, decidere quando deve esserci l’una e quando l’altra, e le rispettive regole. Sono due mondi incompatibili. Se si mischiano è un disastro, non ne viene fuori nulla di buono. È il licantropo ne è la prova.
    Tutto sommato mi piace essere un lupo, ma solo perché ora ho imparato ad accettarlo e vedere il lato positivo. Mi piace correre nei boschi e non fregarmene di niente, ma tocca anche a me ammettere che sono una creatura senza identità. Sono una fune tra l’irrazionalità e l’umanità, entrambe fanno parte di me e si rovinano a vicenda. Non so mai se agisco per istinto o per ragionamento, e questo mi fa sentire impotente nella mia vita.
    Il violento scorrere dell’acqua del lavandino mi riporta alla realtà. Dimentica di come sia iniziato tutto, mi accorgo che Rhydian intanto ha attraversato la stanza, si è avvicinato al lavello e si sta lavando la faccia. Ha i capelli bagnati, ed è sporco di fango, mentre i vestiti sono asciutti.
    Non avendo la macchina è dovuto tornare a piedi, anzi, al galoppo, e probabilmente aveva dei vestiti pronti fuori casa per la ri-trasformazione.
    Si volta verso di noi, e assume l’espressione enigmatica di quando vuole fare il capo. - Ho bisogno che uno di voi vada in città per un … accertamento.
    ‘Accertamento’ è una parola in codice per indicare un nuovo probabile licantropo. Nel caso lo fosse, viene interrogato. Se è nuovo, dopo aver scoperto chi l’ha morso e varie dinamiche, forse gli viene concessa la possibilità di unirsi al branco. Oppure può essere un semplice licantropo di passaggio, in viaggio. Ma nel caso peggiore è un intruso, che sta invadendo il territorio di un altro branco e sicuramente lo sa. La maggior parte delle volte non viene trattato proprio bene – da buoni animali ultra territoriali quali siamo, e se per di più è scappato dal proprio branco … bè, non credo che nessuno sarebbe clemente con lui. Lasciare il proprio branco è un’onta gravissima, a meno che non sia stato scacciato. In quel caso, le regole si potrebbero rivedere e ognuno agirebbe secondo la propria morale.
    - Vado io – si propone Jared. Si lascia andare sullo schienale della sedia. – Cosa abbiamo?
    Rhydian si appoggia placidamente al muro con la spalla, mentre io tendo le orecchie.
    - Ho visto un sospetto un paio d’ore fa, all’Emerald. Si vocifera di un ragazzo violento, definito senza controllo e con atteggiamenti da pazzo. Che ringhia e graffia.
    - Forse è pazzo. O sotto effetto di acidi – interviene Coleen.
    Rhydian gli si avvicina con lo sguardo fermo. – Dicono di aver visto i suoi occhi diventare gialli.
    Stiamo tutti in silenzio.
    Per un momento sono sicura di aver visto anche i suoi occhi cambiare colore, diventare dello stesso colore dell’arancia che ho appena mangiato.
    - È un bene che ti sia proposto proprio tu – grugnisce poi, e lancia sul tavolo un pezzo di stoffa insanguinato. Tutti sappiamo che Jared è il miglior segugio del gruppo.
    - Se lo è lasciato dietro prima di sparire dall’Emerald. Se siamo fortunati lo ha fatto perché si è dovuto trasformare, e quindi ho ragione. E se siamo ancora più fortunati, quel sangue è suo e lo rintraccerai molto facilmente. E mi dirai se ho ragione. – Conclude serio.
    Osservo quello che sembra il lembo di una maglietta. Jared lo prende in mano.
    - Potrebbe avere l’AIDS per quanto ne sai, cazzo – esclamo d’impulso disgustata e il ragazzo indugia.
    Sento Rhydian che mi si avvicina e appoggia una mano sul tavolo, davanti a me.
    - Questi non sono cazzi tuoi, principessa.
    Vorrei sputargli in un occhio, mentre pronuncia quelle parole a denti stretti.
    Deglutisco, e mi allontano un po’ – Vengo anche io in città.
    Silenzio, e ho addosso tre paia d’occhi sbalorditi.
    - Penso di avere il diritto di sapere come funzionano queste cose. E anche sapere se avremo un altro inquilino – azzardo, con più coraggio di quanto pensavo di avere. Ho toccato un tasto dolente, perché la mia ipotesi è proprio quella che scongiurano.
    Rhydian ride, ma nessuno dice niente, quindi decreto che mi è stato accordato il permesso.
    Alla fine, non ho detto niente di male né insultato nessuno.
    Ho soltanto mentito, perché l’unico motivo per cui lo faccio è perché voglio andarmene per quanto posso da questa casa, ma questo loro non lo sanno. E poi, devono credere che sia una di loro. E sono talmente ottusi che posso riuscire nel mio intento.

    Davanti allo specchio, capisco che ho proprio l’aspetto da lupo. Non mi taglio i capelli da più di un anno, e sono cresciuti in maniera spropositata. Mi arrivano alla fine delle costole, in un movimento ondulatorio tendente al disordinato e sono del colore del mio pelo, marrone chiaro. Ho lo sguardo ferino, reso tale soprattutto dalle sopracciglia, forse un po’ folte, appuntite nei punti giusti, ad ala di gabbiano. Per essere metà animale sono decisamente troppo magra e poco muscolosa. Peserò sui cinquanta chili al massimo, e mi si vedono sporgere le clavicole anche da sotto i vestiti.

    Mi sposto, perché odio guardarmi allo specchio. Un tempo la mia pelle era omogeneamente rosa, ma la mia vita qui mi ha regalato graffi e cicatrici rosse e bianche.
    Ho appena finito una veloce doccia, ed inizio a vestirmi. Recuperarmi vestiti femminili all’inizio era stato un problema, ma tra una cosa e l’altra qualcosa erano riusciti a racimolarne un po’, anche se erano quasi sempre cose unisex. Ma mi andava bene anche così.
    Indosso i jeans scuri, degli scarponcini da montagna e una felpa. I capelli non me li pettino, me li riavvio semplicemente all’indietro, secondo la mia consuetudine di lasciarli perennemente sciolti.
    Sospiro evitando lo specchio e esco dal bagno.
    Quando arrivo a piano terra, non vedo Jared e quindi presuppongo che mi stia aspettando in macchina. Esco di casa, senza rivolgere un saluto a nessuno. È la prima volta dopo mesi che esco dalla proprietà, la prima volta che esco di casa per far qualcosa che non sia correre o cacciare in forma lupina. Mi sento terribilmente umana.
    Jared è seduto al posto del guidatore della jeep, quando gli passo davanti mi segue con lo sguardo, fino a che entro anche io nell’abitacolo. Mi metto la cintura e lui accende la musica.
    Senza una parola, partiamo.
    - Da quanto è che non vieni in città? – Chiede con mia grande sorpresa.
    – Un anno credo.
    Vorrei dirgli che è in parte è colpa sua e la risposta la sa benissimo, ma apprezzo il tentativo di fare conversazione. La quale finisce lì.
    La città in questione è Seattle. La città più popolosa dello stato di Washington, parte Ovest del Nord America, localizzata su una sorta di isolotto circondato da sottili rimasugli dell’oceano Pacifico. La città di Jimi Hendrix e Bill Gates, dei Nirvana e Bruce Lee. Temperature raramente sotto zero o sopra i venticinque gradi, ma precipitazioni abbondanti.
    Dista mezz’ora – venti minuti per i licantropi alla guida – da dove abitiamo noi, cioè un posto chiamato Bothell. Il nome è orribile quasi quanto la zona in sé, anch’essa popolata sin al minimo angolo. Fortunatamente l’unica abitazione con qualche terreno intorno la possiede Rhydian, che l’ha avuta in eredità, da quanto ho capito. È sicuramente una gran cosa per un lupo, se non fosse per il fatto che ha vicino troppe altre abitazioni e il lago. Io penso di odiare l’acqua.
    Lago. Ecco spiegato il fiume.
    Dieci minuti e diversi momenti di silenzi imbarazzanti dopo, stiamo ancora costeggiando il lago Washington, quando decido di rompere il ghiaccio.
    - Non vuoi ucciderlo vero? – chiedo, appoggiando la testa al finestrino e cercando di non trasparire il mio disagio.
    - Non voglio farlo, ma non esiterò a farlo se dovrò – risponde freddamente. Vorrei ardentemente chiedergli come farà a capire ‘se dovrà farlo’. Posso farlo, se voglio. Penso che sarà più che entusiasta di vedere che sono desiderosa di imparare le loro tecniche, le loro regole, la loro … burocrazia.
    Mi schiarisco la voce, mostrandomi curiosa invece che spaventata – Cosa vuoi dire?
    Stringe la mani al volante. – Gwen, un lupo nel territorio di un altro è una mina vagante. Capita che sia solo di passaggio, ovviamente. A tutti è permesso viaggiare, fare visita a un parente. Ma se è questo il caso, di solito non danno nell’occhio. Se lo fanno, sono qui per dare fastidio e basta, nel territorio di qualcun altro. Per di più spesso sono licantropi ribelli, traditori del proprio branco. E se da un lato è vero che tra noi branchi c’è rivalità e precisione di confini, tutti concordiamo sul fatto che un lupo che lascia il suo branco è un traditore, un reietto. Una vergogna per tutti, che nessuno oserebbe aiutare.
    Deglutisco.
    La verità non è che sto chiedendo queste cose per diventare esperta del mestiere, questo ormai è chiaro. Ma in realtà, non lo sto chiedendo neanche per seguire il piano di mostrarmi ligia al dovere e perfettamente accondiscendente.
    Lo sto chiedendo perché voglio sapere a cosa vado incontro. Se scappo … Davvero voglio lasciare il mio branco? Diventare una reietta?
    No. Farai in modo di andare in un posto senza branchi, o lupi. Oppure non darai nell’occhio, vivrai da sola. Oppure ancora, quando arriverai abbastanza lontana, vivrai da umana. E ti farai una nuova vita. Amici, un ragazzo, una scuola.
    Mi ripeto, ma io stessa posso sentire il mio pensiero tremare, e la mia speranza crollare. Sono di fronte alla precarietà del mio piano e alla consapevolezza che la mia libertà è solo un’improvvisazione mal fatta.
    Per un momento credo di iniziare a piangere, ma mi distraggo quando inizio a vedere in lontananza lo Space Needle di Seattle, che ci indica che siamo vicini.
    Ignoro i sentimenti contrastanti che mi navigano dentro. A tavolino, decido che non posso rimanere qua ancora per molto. Troverò un modo.

    - Sei sicuro che sia qui dentro? – chiedo a Jared.
    Il ragazzo si guarda intorno, e senza dare nell’occhio avvicina ancora il naso al pezzo di maglietta. Poi alza lo sguardo e annusa l’aria.
    - Si, sono abbastanza certo – dice poi, indicandomi ancora con lo sguardo il locale.
    Abbiamo parcheggiato fuori dall’Emerald, la famigerata discoteca, perché secondo Rhydian era un bel punto di partenza, guardando all’odore.
    Prevedibilmente, Jared è riuscito quasi subito ad agganciarsi alla scia – seppur debole e cancellata dallo smog – di questo ipotetico licantropo, e siamo partiti all’inseguimento. Non sono riuscita a non pensare che stesse inseguendo me, che farebbe la stessa cosa se scappassi. O meglio, che farà la stessa cosa quando scapperò.
    Alla fine siamo arrivati, a dieci minuti di camminata dal centro, in un vicolo, fuori da un locale chiamato Sounders. Jared mi ha spiegato che è il nome della squadra di calcio della città.
    Quest’ultimo mi guarda.
    - Devo entrare io? – chiedo a bassa voce.
    Lui fa un sorriso strano. – Renditi utile. Se entro io, non ho alcuna possibilità di portarlo fuori, non si fiderà mai.
    Davanti ad una mi esitazione aggiunge: - Potrebbe essere il tuo futuro inquilino, tanto vale che inizi a fare amicizia.
    Credici. Tuttavia sono costretta a cedere.
    Non ho bisogno di chiedergli di venirmi a prendere se non torno, perché non permetterebbe mai che non ritornassi a casa con lui.
    - Avresti potuto renderti più carina – brontola, contrariato.
    - Scusa se non mi aspettavo di dover far la puttanella part time – ribatto io.
    Jared si avvicina e mi irrigidisco. Mi aspetto chissà cosa, invece mi porta solo avanti una ciocca di capelli, comprendoni una parte del collo. In quel punto so di avere una cicatrice, che va da metà collo circa alla clavicola. Dove Rhydian mi ha graffiato, una volta.
    - Ti aspetto qui – mi dice.
    Gli do le spalle ed entro. In quel momento mi chiedo come farò a riconoscere il nostro uomo e soprattutto come attaccherò bottone, io che ho paura dei contatti umani, specialmente se maschili.
    Mi ritrovo in un ambiente impregnato di sudore e birra.
    Non è neanche mezzogiorno, Cristo.
    Uomini tutti dai trent’anni in su mi squadrano mentre passo tra i tavoli unti. Ai loro occhi appaio fuori posto, e lo sono, ma cerco di non darlo a vedere. Stringo le mani e aggrotto le ciglia, sicura di me. Se a Bothell sono la debole del gruppo, qua sono l’unica che può trasformarsi in un animale alto un metro e venti al garrese potenzialmente capace di sbranare tutti.
    O forse no, non sono l’unica.
    Sento il suo odore prima di vederlo. So che è inequivocabilmente quello, perché è diverso da tutti gli altri. Passo davanti al bancone, seguendo la scia, che mi porta fino all’angolo del locale. L’odore di birra si fa più acre e maledico di avere un olfatto sovrasviluppato.
    Vedo un uomo, appoggiato su una sedia sgualcita dall’umidità e dallo sporco. La barba incolta e le occhiaie sotto gli occhi lo rendono sicuramente più vecchio, ma non avrà più di ventidue anni, ora che lo guardo bene. Ho la conferma della sua identità quando anche lui mi punta lo sguardo addosso e non me lo toglie più.
    È un lupo anche lui, è ovvio che sente quello che sento io, verso di me.
    Decido di fare la prova del nove. Chiudo gli occhi, e immagino di trasformarmi. Ma non un con una trasformazione violenta e animalesca: più come un sogno, un pensiero reso solo molto nitido, mentre mi dimentico di quello che ho intorno.
    Con il tempo, ho imparato che il lupo in me posso farlo venire fuori poco alla volta. Spalanco le palpebre e la mia visuale è distorta e i colori sono diversi rispetto a quelli di prima. So che gli sto mostrando i miei occhi gialli, da lupo.
    Il ragazzo sorride. Sorrido a mia volta, e poi, con fare molto enigmatico, mi volto verso l’uscita.
    Mi seguirà, lo so. Il suo odore infatti non mi si allontana di troppo, il che vuol dire che è a poca distanza da me.
    Sii umana. Sente la tua paura.
    Esco dal locale e sbianco quando non vedo Jared.
    - Ehi – sento che mi tocca i capelli, lo sconosciuto. Il suo alito è pericolosamente vicino al mio orecchio.
    Mi giro. – Non ti ho mai visto da queste parti.
    Mi mette una mano sulla parte bassa della schiena e ci mette un po’ troppa convinzione per i miei gusti.
    Stai calma.
    Muovo qualche passo laterale verso il fondo del vicolo, trascinandomi dietro lo sconosciuto.

    - Mi vedrai spesso. Come ti chiami? – mi alita addosso.
    - Belle – mento, e sto per cedere.
    Mi vedrai spesso.
    Mi stacco da lui, ancora rossa in faccia. – Devi andartene.
    Ride. – Non posso, davvero. Questa città mi piace troppo. Una discoteca fantastica, tanti bei locali … tante belle ragazze.
    Fa per avvicinarsi.
    - Penso che tu abbia intuito, vedendomi, che questo posto è di qualcun altro – mormoro, come se stessi leggendo un copione.
    Ride, di nuovo, e si allontana guardandosi intorno. Apre le braccia.
    - Belle, sono cose da umani queste. Da cagnolini da salotto. Guinzagli, confini, regole. Siamo licantropi. Ho il diritto di fare quello che voglio dove voglio. Non devo rispondere di niente, di nessuna leggere, umana o no.
    È un discorso idiota e senza senso, ma cosa potevo aspettarmi da uno come lui?
    Mi stanno sudando le mani.
    - Non puoi farlo, ascoltami – mi sento una stupida, a cercare di far rivalutare la propria morale a qualcuno.

    Lo sconosciuto affila gli occhi, e con uno sguardo terrificante incurva le labbra, facendo vedere i denti.
    - Dillo alla prostituta che ho sgozzato stanotte – dice.
    Strozzo un respito in gola. Mi viene da vomitare.
    Mentre è distratto a divertirsi nel guardare la mia faccia traumatizzata, Jared gli balza alle spalle.
    - Ho lasciato che ti invitasse ben due volte ad andartene – dice.
    - Non farlo! – urlo.
    Però lo fa. Vedo che gli prende il mento e lo spinge all’estremo verso l’alto, e prima che possa accorgermene il collo dello sconosciuto (probabilmente troppo poco lucido per reagire) si lascia andare in un crac inquietante.
    La testa inizia a girarmi e inizio a barcollare sul posto. Respiro meglio che posso ma non ottengo grandi risultati.
    - Dobbiamo andarcene – mi tira per un braccio Jared, scavalcando il cadavere in terra.
    Mi divincolo, mentre inizio a piangere - Non vengo da nessuna parte con te. Non dovevi ucciderlo!
    Jared stringe più forte la presa.
    - Ha ucciso una persona innocente, Gwen. Avrebbe continuato a farlo, l’hai sentito – afferma.

    Vorrei sputagli in faccia tutta la sua ipocrisia, insieme alla mia rabbia, vorrei ricordarli tutto quello che hanno fatto, lui e i suoi due amici.
    - Era malato! Avresti dovuto parlarci un po’ di più, cazzo. – concludo io, disperata, graffiandolo sul collo. – L’hai ucciso a freddo, senza nemmeno guardarlo in faccia.
    Poi Jared smette di rispondere delle sue azioni.
    Mi spinge contro il muro, tenendomi una mano premuta sulla schiena e le unghie conficcate nella pelle, oltre la felpa. Il mio mento è in posizioni innaturale, mentre sento l’intonaco grattarmi la guancia.
    - Ascoltami un attimo, stupida ragazzina. Non dovresti neanche essere qua, quindi non permetterti di dare ordini, hai capito? – Mi schiaccia ulteriormente e io gemo. Sto spalmando lacrime sul muro.
    Mi lascia andare subito dopo.
    - Ora andiamocene, che sto cercando di evitare di rispondere di un omicidio. Non voglio di certo rispondere per due – sbotta.
    Sto ancora un po’ tremando, me ne accorgo quando vedo la mia mano destra. Jared si avvia verso la strada principale, e lo seguo.

    I trenta minuti in macchina, al ritorno, sembrano il doppio.
    Le gocce di pioggia scivolano sul finestrino, incontrandosi e lasciandosi. Da piccola credevo che la pioggia scendeva quando il cielo era triste per qualcosa, e quindi piangeva.
    Mi brucia un po’ la schiena a stare appoggiata al sedile. Vedo Jared ogni tanto che si passa un fazzoletto sul collo e lo ripiega leggermente insanguinato.
    Pensare alla reazione di Rhydian e Coleen quando ci vedranno così e sapranno cosa è successo ormai passa in secondo piano automaticamente, nel mio cervello. Sono freddamente indifferente alla solita scenata che mi si prospetta, ma non riesco a togliermi di mente la scena del vicolo.
    Ho visto un ragazzo morire sotto i miei occhi. Un ragazzo che ho portato io alla morte.
    Guardo fuori dal finestrino cercando di trovare qualcosa da seguire con lo sguardo, perché so che se chiudo gli occhi o li dirigo nel vuoto mi si piazza davanti l’immagine del corpo inerme di quel ragazzo.
    I licantropi sono qualcosa di più della mera irrazionalità. I licantropi sono cattiveria, sono lupi che giocano a fare gli umani. I licantropi uccidono prostitute innocenti, uccidono sconosciuti senza neanche assicurarsi che sia la persona giusta, ingannano la gente per poi condurli al proprio carnefice. Tutti, dal primo all’ultimo, indipendentemente dalle intenzioni, siamo qui per fare del male. I licantropi picchiano ragazze indifese e le tengono prigioniere in casa.
    Capisco che non scappo da Bothell perché sono stanca di essere la valvola di sfogo di tre licantropi violenti. Scappo da un mondo che mi ha risucchiato dentro senza chiedermi il permesso, da una natura che mi sta annullando.
    Non posso scappare da me, ma devo provarci.
     
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