Il Paese dei Campanelli

One-Shot | Romantico, drammatico? (tranquilli non muore nessuno) | Verde

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  1. ‚Sherry
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    Il paese dei Campanelli



    _autore: ,Sherry
    _genere: romantico, drammatico?
    _rating: verde
    _tipologia: One-shot
    _breve descrizione: Oh Amelia, Amelia cos'altro combinerai?
    [...] Con un minimo in più di ironia e con un minimo in meno di cotta avrei risposto ‘Barbra Streisand’ ma non ci riuscii, le labbra si ricucirono e lo stomaco si rivoltò. Aprii la bocca solo per vomitare quelle tre parole “Vengo con piacere” poi credo che il mondo collassò. [...]
    _note: Storia scritta due secoli fa per una mia amica in onore della festa delle Donne. Avevamo organizzato una cena ed io ho deciso di portargli due mie creazioni (l'altra è decisamente più allegra). Potrebbero esserci errori ma l'ho riletta e mi sembra che scorra comunque se avete qualcosa da segnalare, segnalate!
    Per chi è assolutamente certo di leggere tutto: sono 7 pagine di Word... come si suol dire Auguri!
    Per i restanti: Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate!
    Per tutti: Di solito non metto mai la lista dei personaggi a fine storia ma era importante, al tempo, dare loro un volto quindi l'ho lasciata C:


    -Ad Asia, semplicemente-

    Il Paese dei Campanelli
    Cronaca di un mondo effimero
    -Di Sherry-



    In un paese, affissi sopra le case, vi sono dei campanelli; se la donna che vive nella casa commetterà adulterio il campanello suonerà ma se per cento anni i campanelli non suoneranno più allora il maleficio cesserebbe e i campanelli tacerebbero per sempre.



    La preparazione è stata lunga, ho dimenticato di mettere lo smalto (Rose è quasi morta di crisi isterica quando se ne è accorta) e sono dovuta rientrare a casa di corsa perché avevo dimenticato qualcosa dentro, non ricordo bene cosa; l’alcol ha cancellato tutto.
    13 Giugno, ore 20:00, festa di fine scuola e ancora non ricordo perché ho accettato; perché Daniele, il mio migliore amico e gay fino all’osso, mi ha supplicata fino alle lacrime? Perché Rosemary ha dichiarato che avevo curato, a continuo a curare, troppo poco la mia sfera sociale? O forse perché Gabriele mi aveva chiesto se andavo? L’ultima, credo.
    Delle lacrime di Daniele non me ne è mai fregato molto, lui sa bene, quanto e più di me, che le sue sono solo dannatissime lacrime di coccodrillo per Lorenzo, III B e, tra l’altro, etero e fidanzato da anni con Chiara. Rosemary, invece, sa che niente di niente potrà mai convincermi ad uscire di casa il sabato sera per curare, come dice lei, i “rapporti sociali e socialmente utili”, non sono una di quelle stupide ragazzine con il cappotto firmato, le gonne giro vita e la canotta che se ne vanno vestite da spiaggia a Dicembre inoltrato, proprio no. Dio! al solo pensiero mi sento già pronta per la criotecnologia e, fidatevi, non è un bel pensiero.
    È venuta prendermi Rose ma dire che è venuta a “prendermi” è lievemente riduttivo; vedete Rose non si è soltanto presentata a casa mia con quattro ore di anticipo ma si è portata dietro pure Daniele e non so dire, tra le due, quale sia la cosa peggiore. Mi ha trascinata davanti al mio armadio mentre Daniele spiegava, con il suo più adorabile sorriso, a mia madre che non potevo rimanere a cena, che sarei rientrata tardi, molto tardi, che non c’era nulla di cui preoccuparsi e che i miei amici avrebbero pensato a tutto portandomi e riportandomi a casa, il tutto era stato chiuso con una sfarfallata di ciglia che aveva mandato mia madre in solluchero che così, finalmente felice e serena, si era ritirata in cucina a spadellare per mio padre.
    Daniele ci aveva trovato in camera “Ce ne hai messo di tempo” aveva sfiatato Rose con le mie mani strette intorno al suo collo, Daniele non l’aveva minimamente considerata; si era avvicinato, piuttosto, al mio armadio ed aveva iniziato a cercare febbrilmente qualcosa, qualunque cosa potesse andare. Io, intanto, avevo mollato il collo della mia amica e lo guardavo con occhi supplichevoli mentre, con sguardo disgustato, faceva scorrere le dita da pianista sui miei jeans, si soffermò sulla gonna nera ma evidentemente decise che era troppo lunga e continuò il suo cammino.
    Ti prego non trovarlo pensai per favore, per favore ma quel giorno doveva esserci una strana congiunzione astrale per la quale mi andavano tutte male quindi non solo le dita da pianista di Daniele si fermarono precisamente sul tubino nero che mia madre mi aveva comperato per le “grandi occasioni” ma lo tolsero anche dalla stampella e me lo appoggiarono delicatamente addosso.
    Rose ammutolì guardandomi mentre io fissavo lo sguardo sulla punta delle mie scarpe, fu questione di pochi secondi; Daniele venne sospinto nel corridoio e Rose mi tirò per la maglia per convincermi a vestirmi in fretta. Respirai piano piuttosto contrariata, la spedii fuori della stanza ed iniziai a spogliarmi sovrappensiero.
    “Dio che casino” mormorai ripensando a quello che era successo il giorno prima.

    ***


    Il venerdì mattina era sempre una tragedia. Forse, chi lo sa, era fisiologico, quasi naturale, che i venerdì, tutti i venerdì, fossero terribili eppure quel giorno mi ero sentita peggio del solito. Avete presente quella sensazione di stanchezza mattutina? Quella che è normale avere insomma, ecco per me, se quella stanchezza si risolve a un profondo dolore ad alzarsi dal letto e un immediato pensiero a cercare una scusa, una qualsiasi, per non alzarsi allora vuol dire che quella giornata sarà veramente, veramente schifosa.
    Insomma giornata schifosa sommata a venerdì… no, non era proprio il caso di avvicinarmi. Per nessun motivo al mondo avrei risposto alle persone con più di un ringhio, forse al professore di latino avrei dedicato qualche monosillabo, forse e se interrogata.
    Un altro bisogno fisiologico era fare sempre le stesse cose, arrivare il classe, agitare la mano in un segno di saluto, appoggiare la mia roba sul banco e scappare in corridoio a godermi il panorama, dovevo fare così, era natura e poi perché cambiare l’ordine delle cose e rischiare di rimanerci secca? No, assolutamente no, meglio continuare come al solito.
    Sono una tipa abitudinaria, che posso farci? Ma era venerdì e l’abitudine, di venerdì, non conta. Stavo caracollando verso la classe sperando che almeno il destino mi avesse lasciato il tempo di appoggiare lo zaino sul banco, Rosemary, la ragazza venuta appositamente dall’Inghilterra per imparare l’italiano, mi saltellò incontro seguita a ruota da Daniele “Hello Amy!” mi salutò solare “Dio Rose” ringhiai infastidita “Quante volte ti ho detto che mi chiamo Amelia!” non che andassi pazza per il mio nome, ovvio, ma sentirmi chiamare Amy alle otto e dieci di mattina proprio non mi andava giù. Come se non bastasse Angelica era spalmata su Giovanni e gli stava praticamente mangiando la faccia, Pietà pensai Sono solo le 8. Che io avessi una cotta colossale per Giovanni non era una novità e neanche che si vedesse con Angelica, che di angelico aveva sopra il nome, per fare ben altro che studiare, neanche questa era una novità ma vederli insieme aveva sempre prodotto in me lo stesso effetto; un’orticaria fulminante.
    Sospirai lasciando lo zaino sul banco ed accostandomi alla finestra; di rivedere i “piccioncini” non se ne parlava, più volentieri mi sarei sparata, così rimasi a fissare la nebbia fuori della finestra.
    Gabriele si avvicinò sorridente ed io alzai gli occhi al cielo “Di male in peggio” masticai scontrosa, Gabriele mi moriva dietro da una vita, lo sapevo, ed una volta ci ero anche uscita. Era il ragazzo perfetto, quello da sposare, quello che non ti avrebbe mai tradita ma io non riuscivo a togliermi dalla testa Giovanni. Forse ero stata brutale a respingerlo ma lui aveva sorriso, capite? Sorriso, semplicemente ed io mi ero sentita un verme. E poi da li era iniziata la nostra semi-amicizia.
    Da quel giorno si faceva avanti praticamente a mesi alterni ed avevo perso il conto di quante volte mi aveva invitata ad uscire, non capivo come faceva ad accostarsi sempre così sorridente, così adorabile; no, non gli avevo mai detto di trovarlo adorabile, sarebbe stato troppo.
    “Eih musona!” mi apostrofò “Che vuoi?” domandai con voce spenta, sorrise, come sorride sempre lui che sembra Jude Law in L’amore non va in vacanza e, per inciso, io adoro L’amore non va in vacanza, “Niente” continuò fintamente noncurante “Mi chiedevo solo se stasera saresti venuta o no alla festa.”
    Riportai l’attenzione sulla nebbia, non che avessi mai realmente staccato lo sguardo dal vetro ma la mia attenzione era stata deviata, stavo per rispondergli con una frase di circostanza del tipo “Mia madre è stata colpita da una grave, gravissima, malattia e devo rimanere a casa” ma in quel momento, nell’esatto istante in cui voltai la testa per rivolgermi a Lorenzo, Giovanni e Angelica entrarono in classe. Entrarono in classe tenendosi per mano. Entrarono in classe tenendosi per mano e si baciarono teneramente davanti a tutti, quel grandissimo pezzo d’imbecille di Aldo fece partire l’applauso seguito da un coro di Uuuh! eccitati. Con un minimo in più di ironia e con un minimo in meno di cotta avrei risposto ‘Barbra Streisand’ ma non ci riuscii, le labbra si ricucirono e lo stomaco si rivoltò. Aprii la bocca solo per vomitare quelle tre parole “Vengo con piacere” poi credo che il mondo collassò.

    ***


    Mi guardai con aria stanca allo specchio dentro l’armadio, ero carina, certo, nella media ma carina. Niente occhi a cerbiatta o gambe tornite o un seno da pornostar semplicemente una ragazza normale con una massa di indomabili capelli castani. L’unico problema erano i miei occhi, non pretendevo fossero azzurri acquamarina come quelli di Angelica o verde giada come quelli di Rosemary, mi sarebbero bastati di un anonimo marrone ma chiedere anonimo a me era chiedere troppo. I miei occhi erano di due colori diversi, il sinistro era blu, e per blu non intendo quell’azzurro slavato che si vede in televisione intendo veramente blu, blu oltremare, quasi finto, l’altro era grigio e mi sarei consolata se fosse stato grigio ferro, insomma avere gli occhi di due colori diversi ma, almeno tutti e due scuri, invece no, l’occhio destro era grigio chiaro, come il pelo di un gatto appena nato. Erano occhi strani, da una parte ne andavo fiera mentre, allo stesso tempo, li odiavo; mi avevano impedito di essere uguale a tutti gli altri, c’è chi avrebbe detto che era una fortuna, per me è stato semplicemente un supplizio.

    “Allora tesoro tutto bene?” strillò Daniele da dietro la porta. Sussultai appena, la voce di Daniele mi aveva riportata bruscamente sulla terra, passai una mano tra i capelli e andai ad aprire la porta. Avevo assunto un’aria imbronciata per sottolineare la mia scarsa capacità collaborativa ma i due se ne fregarono altamente: l’ora successiva passò a strofinare la mia pelle con ogni tipo di crema trovata in casa, a nascondere i pochi brufoli con i prodotti che Rose si era portata da casa, a creare un’acconciatura che potesse soddisfare Daniele, ad esaltare gli occhi e le labbra.
    Mi rifiutai di guardarmi allo specchio ma non riuscii a resistere e lanciai di sfuggita un’occhiata al grande specchio posto in salotto; Wow! Mi ritrovai a pensare, i miei occhi non erano semplicemente diversi, erano ipnotici e ben definiti, la labbra sembravano più grandi, quasi affabili e la pelle era chiara, maledettamente chiara.
    Abbassai lo sguardo e passai oltre, salii in macchina, troppo scossa per spiccicare parola, lasciai guidare Daniele fino al “Boca de Diablo”, il locale più in voga tra i liceali della mia età.
    Il Boca lasciava intendere che cos’era appena vedevi l’insegna; era rossa, ma non quel rosso sbiadito da night immerso nell’immondizia, un vero rosso che ti accecava per un istante e ti mostrava un mondo “più” del quale non potevi far altro che rimanere ammaliato. Daniele fermò la macchina nel piccolo parcheggio e Rose saltellò fuori facendomi cenno di scendere, aprii lo sportello ed uscii fuori, l’aria della notte non era così fredda, l’estate aiutava molto la temperatura in effetti. Rose mi prese sottobraccio e sorrise gentilmente “Non ti preoccupare – cercò di tranquillizzarmi – è solo una stupida festa, se non ti piacerà ce ne andremo” Daniele ci raggiunse e si infilò tra noi due, sorrise anche lui ed io respirai afflitta; non c’era proprio modo di andarsene.
    La prima persona che riconobbi fu Gabriele, era appoggiato al muro e fumava piano la sua sigaretta, con la lentezza esasperante di chi era costretto ad aspettare ma non è più felice di farlo. Non mi vide o non volle vedermi o ambedue le cose, fatto sta che lo chiamai.
    Sul serio non ridete, lo chiamai.
    Era un istinto strano quello che mi condusse ad attirare la sua attenzione, forse volevo sentirmi dire che ero bella, forse volevo che la smettesse con quella sigaretta o forse volevo solo che mi guardasse, che sapesse che dietro le felpe sformate c’era Amelia, un’altra Amelia ma altrettanto Amelia come le altre.
    “Ciao!” lo salutai, ero allegra, euforica, forse fin troppo, fino ad un secondo prima ero avevo tenuto il muso lungo e avevo risposto a monosillabi smozzicati; sentii lo sguardo di Daniele appuntarsi sulla mia schiena come una mosca fastidiosa che cammina sulla pelle “Ciao” rispose Gabriele, era apatico e… bellissimo. Con i jeans scuri e la camicia di seta arrotolata fino ai gomiti, con i capelli corvini e gli occhi neri, con quell’aria apatica che mai, mai gli avevo visto addosso.
    “Venite, vi faccio entrare” usò il plurale per pura cortesia, si rivolse soprattutto a Daniele visto che Rose si era dileguata; molto probabilmente aveva visto Chris, suo compagno nello scambio, ed era andata con lui, mentre trattò me come se fossi fatta di acqua: trasparente.
    Ne rimasi stranita, mai una volta Gabriele si era dimenticato l’ardore con cui mi salutava, il semplice fatto che mi ignorasse era, di per se, strano. Ci guidò fino dentro al Boca, salutò con un cenno della mano uno dei bodyguard, un armadio a quattro ante con un completo di Hugo Boss da quindicimila euro la manica, e ci mostrò il nostro tavolo, era lievemente scostato rispetto al centro pista ed era in ombra, una buona caratteristica considerando che non sopportavo tutte quelle luci psichedeliche troppo a lungo. Dopo averci dato il tagliando per un cocktail gratis si dileguò, cercai di richiamarlo ma la musica era troppo alta; non mi sentì.

    ***


    Ho già detto che non sono mai stata l’anima della festa?
    Beh lo dico adesso.
    Rose era passata ma si era fermata poco, ci aveva presentato Chris e poi era sparita, Daniele si era fatto un nuovo amico, Enrico, geometra e molto, molto carino ed io ero rimasta sola come una stupida con la mia pesca lemon in mano, l’unico cocktail abbastanza dolce da potermi sorbire in tutta tranquillità, seduta a guardare gente dimenarsi dentro una stanza con la musica a tutto volume e l’alcol nel sangue che mi faceva girare la testa; non reggevo lo spumante figurarsi la vodka!
    In quel momento l’ultima persona al mondo che potevo pensare si avvicinasse si avvicinò e no, non era Gabriele.
    Giovanni, con il suo fascino da tombeur de fammes, si avvicinava di gran carriera al mio tavolo con un sorriso stampato in volto, il mio primo ed unico pensiero fu Ommiodio ma non era di felicità; non era il pensiero della consapevolezza che la tanta pazienza era sortita a qualcosa anzi, avevo la strana sensazione di aver perso il mio tempo, completamente. Tre anni passati con pensieri stupidi per la mente su di una persona che non li meritava, Aspetta mi dicevo passerà, crescerà e, finalmente, se ne accorgerà ed era diventato un pensiero fisso, ciò non significa che era giusto o sbagliato o debole o forte ma c’era, ed il solo fatto di pensarlo tutti i giorni lo rendeva vero ai miei occhi.
    Giovanni sorrise venendomi in contro “Ciao” mi salutò, come avevo fatto a credere che quella voce potesse essere bella? Lo era, certo, era una voce profonda, una voce da uomo ma non era la voce giusta per lui, non era la voce giusta per me; “Ciao” pigolai incerta ed il suo sorriso si allargò ancora di più, sedette accanto a me spostando la giacca di Rose di lato e continuò a sorridere.
    Pensa ringhiai al mio cervello Qualcosa e in fretta la domanda salì alle labbra spontanea e cercai di imprimergli un tono casuale “Dove hai lasciato Angelica?” falsa come Giuda, Gabriele avrebbe fiutato la bugia lontana un miglio ma Giovanni non vi fece caso: “Mi aspettavo una domanda del genere, sai” disse avvicinandosi al mio orecchio e cercando di apparire suadente. Sul serio, credeva davvero di essere così macho?
    “Comunque – continuò – ho pensato che Angelica è solo una delle tante, vorrei che l’unica fosse un’altra. Tu, Amelia”
    Frase fritta e rifritta, una di quelle cose vomitevoli che, di norma, non avrei sopportato e, grazie al cielo, quella sera, a discapito della rabbia, della delusione e dell’alcol ero nella norma ma non feci abbastanza in fretta, abbastanza in fretta a fare niente. Non feci abbastanza in fretta a scostarmi o abbastanza in fretta a respingerlo e lui mi baciò; era quello che avevo desiderato per tre lunghi anni; lo avevo sognato, quel bacio, ad occhi aperti e chiusi ma mai un desiderio era stato così amaro.
    La sorpresa mi aveva bloccata, lo respinsi ma non feci abbastanza in fretta, un altro abbastanza, uno di troppo; Gabriele era lì, la camicia di seta e i pantaloni scuri, i capelli corvini e gli occhi neri, un bicchiere infranto ai suoi piedi e la bocca piegata in una smorfia ferita.
    In mio cervello si era spento, la mia bocca era aperta in una buffa “O”, tutto era silenzio ma nessuno si curava di noi: “Eih amico? Tutto bene?” Gabriele volse le spalle e se ne andò, Giovanni strofinò il naso contro la mia spalla “Chissà cosa gli è preso…” mormorò al mio orecchio, al quel contatto balzai in piedi. Lo volevo lontano, da me, dal mio cuore che si era dilettato tanto a distruggere, dal mio pensiero che aveva usato come trastullo personale, desiderai vederlo in pista, appiccicato ad Angelica o a ubriacarsi al bancone, ovunque ma non lì, non sul mio divanetto al mio tavolo.
    “Eih” mugolò afferrandomi il polso “Ti ho detto che ti amo e tu neanche mi ringrazi? Su un bacetto almeno me lo meriterò…” uno schiocco si propagò nell’aria spegnendosi presto nella musica.
    “Non. Osare. Toccarmi.” Sillabai arrabbiata “Ti ho aspettato per anni Giovanni, anni. Non provare a dirmi che ti meriti qualcosa, non provare a dirmi che mi ami, stammi lontana, il più lontano possibile.”
    Corsi via, spintonai le persone in pista, oltrepassai il bancone dove il barman stava shakerando l’ennesima bomba alcolica e mi fermai, non sapevo dove andare, non sapevo da chi rifugiarmi sapevo solo da chi scappavo; mi guardai intorno, non vedevo né Daniele né Rosemary.
    Un guizzo di seta nera mi apparve per un attimo davanti a gli occhi Gabriele pensai, era stupido ed egoistico da parte mia, ma dovevo parlare con lui; adesso che avevo pensato al suo nome il bisogno mi stringeva la gola come una morsa.
    Mi avvicinai all’armadio che Gabriele aveva salutato “Mi scusi – lo interrogai timidamente – sa mica dirmi dov’è Gabriele?” mi guardò per un lunghissimo istante poi indicò fuori con un cenno della testa, ringraziai ed uscii.
    L’aria della notte era lievemente più fredda rispetto a quella serale che avevo sentito appena uscita di macchina, me la godetti per qualche istante prima di stringere le mani sul vestito a lisciare una piega inesistente, Gabriele era sempre appoggiato vicino all’entrata, come se non si fosse mai mosso di lì; la sigaretta era caduta andando, con gli altri mozziconi, a decorare l’asfalto del piazzale e Gabriele guardava il cielo con occhi vitrei, senza vederlo veramente.
    Mi avvicinai e seppi che mi aveva visto, aveva serrato la mascella e socchiuso gli occhi, era stato un attimo ma sapevo che l’aveva fatto; la musica nella discoteca era attutita, quasi non si sentiva lì fuori “Perché non sei dentro?” chiesi, la domanda era un’altra e di risposte che avrei potuto accettare ce n’era una sola, non mi guardò, continuò a tenere lo sguardo fisso al cielo “Gabriele…” lo chiamai sospirando.
    “Sta zitta Amelia” la sua voce era tagliente e mi fece sussultare “Non mi interessano le tue spiegazioni né la tua pietà, se non posso averti non importa, se non hai capito non importa, se hai scelto lui, non importa ma, almeno, abbi la misericordia di lasciarmi in pace” la sua voce vibrava di rabbia “Non voglio lui” mormorai distogliendo lo sguardo, lo avevo cercato, ero stata egoista, mi ero avvicinata, ero stata masochista ora avevo distolto lo sguardo; una vigliacca, ecco cos’ero.
    “Allora cosa vuoi Amelia? Lo hai cercato per tre anni ed adesso che ti vuole tu lo respingi? Ti diverti così tanto a giocare? Perché è questo che è non è vero? Uno stupido gioco! Le tue abitudini, i bronci, il rifiutare tutto e tutti, è solo un gioco Amelia! Lo è sempre stato! Quindi dimmi cos’è che vuoi se non lui. Vuoi che tutti ti sorridano? Ti stiano attorno pronti ad essere colpiti dalla tua franchezza? Vuoi che ti amino? Che ti promettano il mondo? Che ti stimino? Io ti stimavo Amelia, e ti avrei promesso il mondo e te lo avrei portato se solo tu me lo avessi chiesto e ti avrei amata con tutta la mia anima ed avrei amato la tua franchezza, non sei stata la sola ad aspettare Amelia, non lo sei mai stata”
    A questo punto dovevo piangere, insomma in tutti quei romanzetti rosa che mia madre mi aveva rifilato per 17 anni della mia vita la protagonista, a questo punto, piangeva sempre perché si rendeva conto di amare il suo belloccio alla follia per me non fu così. Io mi resi conto solo di non amare Giovanni, di non averlo mai amato veramente ma di essermi aggrappata all’idea di piacergli, nel profondo, e di averlo fatto con così tanta forza che nessuno riusciva a scuotermi da quella convinzione; provai un’insana voglia di abbracciare Gabriele e scoprii che non mi interessava il suo rifiuto perché avrei ritentato una, due anche cento volte se necessario.
    Mi lanciai contro di lui cingendogli la vita con le braccia, si irrigidì distendendo i muscoli subito dopo; mi accarezzò i capelli rispondendo all’abbraccio, scoprii che, dopotutto, non aveva un cattivo odore.
    “Cosa devo fare con te Amelia?” sospirò sconfortato, strinsi di più la presa “Non lo so – risposi – non so cosa voglio Gabriele ma di sicuro non voglio Giovanni, mai più. Ti prometto che non farò sembrare più niente come un gioco e che mi godrò la vita, era questo che volevi dirmi tra le righe?”
    “No – disse ridacchiando – non era esattamente quello che volevo dirti ma sembra un buon inizio. Potrò starti accanto?”
    Sorrisi guardando il cielo prima di rispondere e capii che non ero più sola in quel Paese dei Campanelli, che le persone si sarebbero lasciate ed io avrei litigato ancora mille volte con Gabriele e gli altri ma capii anche che non mi interessava, che se saremmo rimasti ancora uniti come lo eravamo stasera allora tutto poteva andare, allora tutto sarebbe resistito; ringraziai mentalmente un cielo in cui non credevo per quella benedizione inaspettata.
    “Certo – risposi – potrai starmi accanto quanto e come vorrai”

    ***


    L’alcol ha cancellato tutto… balle! Ricordo tutto perfettamente come se fosse successo ieri, rimanemmo abbracciati per molto tempo e su una cosa quei romanzetti avevano ragione, il tempo passò così in fretta che neanche ce ne accorgemmo.
    Beh? Cosa volete sapere ancora?
    Ah, capisco.
    No, io e Gabriele non ci baciammo quella sera, mi riaccompagnò a casa e mi baciò sulla porta (cosa che trovo tutt’oggi molto romantica per quanto io sia repellente al romanticismo) e, solo a scopo informativo, era già mattina.

    -Cast-
    Amelis Warner is Amelia
    Cristiana Capotondi is Rosemary
    Lucas Grabeel is Daniele
    Nicolas Vaporidis is Gabriele
    Brandon Stoughton is Giovanni
    Megan Fox is Angelica
    Drew Fuller is Chris
    And
    Micheal C. Duncan is The Big Bodyguard

     
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    Mi è piacuta molto!! Spero di leggere presto qualcos'altro di tuo ^^
     
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    Mi è piaciuta tantissimo, a partire dal tuo modo di scrivere. Ho amato ogni singolo pensiero di Amelia, che bel personaggio! Costruito troppo bene! E Gabriele ♥
    Bella, bella, bella, bellissima!! Complimenti (e di solito io sono MOLTO critica).
     
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2 replies since 21/2/2012, 21:38   108 views
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