What fresh hell.

Una città anonima. Fatta di palazzi e vie sconosciute agli uomini. Desolate strade che mormorano di inquietudine e paralisi. Grigiore e pallore agli angoli dei vicoli. Non un sospiro, non un vociare. Un silenzio assordante e drammaticamente reale, invade il territorio, con un’intensità tale da far accapponare la pelle. La solitudine alberga in essa, accompagnata dal frusciare delle foglie. Un vento flebile, dapprima, tramuta il suo soffio, in violento impeto, infrangendosi tra le fronde di quegli alberi, troppo spogli e vecchi per aver la forza di rifiorire e fruttificare.
Un passo. Due passi. Poi un altro. Un altro ancora. Tic tac…i secondi vengono scanditi dalle lancette di un orologio. Secondi che si mutano in minuti. Tempo che trascorre inesorabile, per un animo come il mio. Ragazza appena ventenne, costretta a vivere in un mondo fatto di mera ipocrisia. I miei lunghi capelli castani, si scompigliano a causa del vento, che non cessa la sua furia, e i miei enormi occhi azzurri, che hanno sempre brillato di luce propria, hanno deciso di spegnersi. Non un bagliore da questo sguardo espressivo e pieno di vitalità. Me ne sto quì.
Seduta su una panchina, sul ciglio di una delle tante strade del centro. Tutte uguali e prive di significato. Osservo lo scenario, che mi si palesa davanti, quasi fossi costretta a recitare la parte di uno spettatore, durante la proiezione di un cortometraggio in bianco e nero. Colori base, che lentamente sbiadiscono; e in contrapposizione a questo decadimento, il suono delle campane, interruppe ogni immagine. Bruscamente. Il mio cuore pare balzar fuori dal petto, e senza sosta alcuna.
Un sussulto, mi fa sollevare da questa posizione, in attesa di un qualche segnale. Indicazione, stimolo, che giungono come fulmine a ciel sereno, squarciando le nubi che alte, sovrastano l’intera zona. Non un rumore. Non un sibilo. Solo il tonfo sordo di una porta, che, come spinta da una forza invisibile, si spalanca aprendo la strada verso un luogo consacrato. Dinanzi allo mio sguardo, una cattedrale.
Monumento religioso che si erge su pilastri di marmo, dalle sfumature che cangiano dal nero al grigio, donandogli un aspetto maestoso, ma nel contempo tetro.
L’interno, per ironia della sorte, è pressoché spoglio.
Solo due file di panche, in legno di castagno, a ostacolare il cammino, lasciando nel mezzo la via per raggiungere il centro della chiesa. Dove, per una sorta del caso, non vi è altare. La navata centrale, è caratterizzata da una semplice, bensì complessa scala a chiocciola, anch’essa in legno, che permette di raggiungere, da ambo i lati, un terrazzo.
Ne varco la soglia, reclinando in capo, e roteo i bulbi oculari, in attesa che qualcosa incontri il mio fuoco attentivo. Ma è un instante, una frazione di secondo, e le note di un organo, echeggiano nell’aria, e è in quel momento, che rimango sola, assieme a pochi e insignificanti fedeli. Comuni mortali vestiti d’un lungo abito nero, ed un mantello scuro. Incappucciati, che, uno dopo l’altro, si apprestano a raggiungere in centro della cattedrale, inginocchiandosi.
Una genuflessione rivolta a statua invisibile, prima di divenire polvere al vento. Seguendo un turno non propriamente ordinato, questi divengono con una facilità disarmante, invisibili.
E come fosse cerimonia o veglia, il tutto viene accompagnato da note e musica pesanti e crude di un organo che solo orecchio poteva udire. Perché agli occhi, non è permesso di osservare. Solo io, sento.
Lentamente i muscoli degli arti superiori ed inferiori, prendono a pesarmi come macigno sulla schiena, e la mente si stacca completamente dal corpo, quasi volesse vivere una vita separata.
Quasi non me ne accorgo, e in pochi istanti, mi ritrovo perfettamente al centro del monumento; scruto e ammiro ogni dettaglio che possa ricordarmi un qualcosa di reale; è istintivo per me, abbassare lo sguardo, e sgranare i grandi occhi, in direzione di quella che noi definiamo rosa dei venti. Un disegno, impresso sul pavimento freddo e lucido, che risalta con tinte rosse e marroni di una bellezza e di un candore mai esistiti. Incanto. E’ questo che mi colpisce, di soprassalto, e mi blocco violentemente, portandomi a terra. L’aria si fa, tutta a un tratto più rarefatta e pesante. Frizzante e diabolica nel contempo. Elettricità che solo io posso percepire, con brividi che mi fanno sussultare, creando spasmi sino alle membra. Le mani a poggiarsi sulla superficie gelida, e lentamente sento il corpo intorpidirsi. Deglutisco sensibilmente, alla vista d’un uomo alto, e coperto d’un mantello rosso fuoco. Il vento, i soffi diventano man mano più lenti, e taglienti. Graffi compaiono sulla pelle così bianca e candida.
Paralisi.
Lui scende le scale. Gradino dopo gradino, senza mai accennare una qualche sosta. Il passo deciso e prepotente come la melodia che inizia ad aumentare di volume. E questa sua feroce falcata si arresta davanti al mio raggio d’azione; stringo le palpebre per mettere a fuoco il volto di quello che si muta nel mio carnefice.
Padrone e disertore, che si inchina verso di me, mantenendo l’abbigliamento.
Privo di occhi.
Privo di naso.
Privo di bocca.
All’interno del cappuccio, posso scorgere per la prima volta il nulla. Quell’oblio di cui tutti parlano, adornato di fiamme luminose e, vento ghiacciante.
E poi il buio.