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  1. dany the writer
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    Titolo



    _Autore: Dany the bloddy writer
    _genere: Fantasy
    _rating: arancione
    _tipologia: drammatico
    _breve descrizione: A tantissimi verrà chiesto di fare l'impossibile. Pochi ci riusciranno. La missione, il solo ed unico grande obbiettivo della razza umana di Solaria, è semplice nella sua titanica difficoltà: battersi contro l'orrore e respingerlo. Non ci sono luoghi dove potere fuggire, non ci sono passi indietro permessi.
    _note: DESPAIR EVENT HORIZON


    ATTO I
    “La via per Arrini”



    Capitolo primo
    Il giavellotto della rivolta



    «Ancora uno sforzo!» La voce persa, sommersa nel rumore delle esplosioni termo-energetiche ad area ridotta e delle scariche di fucileria ad impulsi, impegnata a dare voce ad un grido rauco.
    Da quelle parola andavano irradiando, con una forza vivissima e pulsante, la promessa di una vittoria, il miraggio di qualcosa che in quel piano dimensionale non avveniva da tre generazioni, il calore, stantio e misconosciuto, della speranza.
    Quello che rimaneva delle tredicimila anime del suo reggimento, l'ultimo degli originari duecento grandi reparti mandati come ondata finale per quell'attacco, l'ultimo a tenere alte le insegne del Grande Esercito della Confederazione di Solaria, rispose al grido con un'ovazione rauca.
    Sfinite ma grandiose nel loro riuscire a sollevarsi ancora una volta, le centotré voci superstiti fendettero gli ultimi echi della battaglia opponendosi al traumatizzante calpestio del nemico.
    Malconcio e spoglio delle protezioni offerta dagli scudi energetici e dalle ormai distrutte rune di protezione che li erano state applicate a calore vivo durante la forgiatura in un lager emerso alla realtà dalle infernali profondità dell'Awnw, il massiccio camminatore su tre zampe chitinose rispose a quel gesto tentando di recuperare l'assetto con un movimento barcollante.
    Le tredici servo-braccia sui quali erano montati i grandi cannoni arco-flagellanti già svirgolavano, tra gemiti di metallo contorto e bombardato, in posizione.
    Sui fusti lunghi cento metri, quanto il picco di una babilonia, danzavano fulmini carmini popolati da volti umani stretti nell'agonia d'essere utilizzati come munizioni e servire il Grande Nemico tra tutti i Nemici del popolo Solariano.
    Gli occhi del capo a cuspide erano congelati in una smorfia; esprimevano un sentimento d'odio e paura e desiderio di sterminio che non potevano essere resi con termini più complessi e descrizioni ampollose; l'essere che animava la macchina, uno compagno ancora in vita di quell'armata che le infinite ondate di carne da cannone gettate su quelle lande da Solaria erano incredibilmente riuscite a battere e mettere in fuga e distruggere in un carnaio orrendo, ora sentiva la sua vita pendere da un filo e percepiva l'imminenza della sconfitta.
    Com'era stato possibile che gli eserciti quasi sempre sconfitti ma mai arresisi fossero stati capace di segnare quella vittoria?
    In che modo il loro vantaggio su di loro si era spezzato? Quale stregoneria aveva aiutato le loro patetiche armi a scavalcare il divario con quelle maneggiate dagli invitti guerrieri delle Schiere Oscure?
    Quale mente dotata di una blasfema genialità aveva invertito il corso della battaglia navale che aveva permesso ai Solariani di sbarcare, concedendo loro una vittoria laddove genericamente subivano soltanto disfatte schiaccianti?
    I superstiti del 190.055esimo Reggimento di Fanteria Corazzata del pianeta di Adharia IV in Kolium si unirono come l'ultimo drappello di una schiera di formiche guerriere.
    Sciamarono oltre i cumuli di morti e le cataste di rottami bruciati.
    Erano i dettagli che costellavano una pianura, un tempo verde, dove l'unica vera regina era la devastazione della morte e l'acre odore del fumo dei fuochi appiccati ai boschi e a centinaia di migliaia di carni straziate.
    Sciamarono verso l'ultima linea di mezzi corazzati per la fanteria tipo Vintarthi-Gladiatorès e si accalcarono dietro le loro figure, sfuggenti e cuspidali, trasformate da velocissime macchine di morte a relitti incastrati nella fanghiglia.
    Il maggiore Zivah 'Rchereria puntò il braccio verso il camminatore, che alzò un grido elettro-magico per celebrare il ritorno online delle sue armi da sfondamento.
    Inginocchiata dietro un mezzo corazzato sul cui fianco destro si apriva uno squarcio largo sei metri ed alto fin quasi alla torretta, le gambe affondate nella fanghiglia rossastra per tre centimetri di profondità, il volto di donna matura coperto da fuliggini e dagli umori rappresi di tanti caduti sotto il suo comando, l'elmetto a foggia integrale perduto in chissà quale buca da mortaio e la mano sinistra chiusa ad imbracciare un'ormai scarica carabina ad impulsi Altavista Enoich Tàr 16.6; in quella posa Zivah subì l'attacco portato dalla voce del camminatore.
    Sentì come lo stridere di un gesso su di una lavagna d'ardesia, retaggi di un passato che né lei né la sua gente avevano mai visto ma che ricordavano come luoghi comuni, dodicimila volte dodici gradi più potente e terribile da sopportare.
    Le scoppiò il timpano sinistro ed un rivolo di sangue denso di piccole schegge ossee subito prese a scorrerle sul volto.
    Aveva ancora l'orecchio destro, difeso da quell'attacco in virtù dell'auricolare-amplificatore connesso allo eye-patch azzurro piazzato sull'occhio dello stesso lato.
    Attraverso questo sentì la propria voce gridare il necessario ordine a ciò che rimaneva del suo reggimento. Sentì l'esasperato ordine di chi aveva sacrificato tutto, quasi fino all'ultima donna e all'ultimo uomo, per guadagnare quella zolla di terra e garantire alla Confederazione una duplice vittoria.
    Una testa di ponte dalla quale partire per la liberazione del piano dimensionale di Arrini, con i suoi novecentomila sistemi stellari importanti per le risorse e la posizione strategica...e, cosa più importante, dimostrare a tutto l'atterrito ed esausto popolo di Solaria che le Schiere Oscure non erano invincibili.
    Non dovevano essere viste l'immenso Goliath che dalla seconda metà di quel secolo aveva infierito sulla povera Dele'lìath conducendo una campagna di vittorie incredibili per lui e dolorosissime per le linee confederate, costrette a subire una devastante disfatta dopo l'altra.
    Potevano essere battute.
    «Usiamo i Jaegherya! Caricate gli Argonye-Trai! Non sarà facile abbatterlo!»
    Tre gruppi di due addetti alle armi pesanti, le vestigia esauste di quella straordinaria potenza di fuoco che era stata a disposizione del 190.055esimo Reggimento di Fanteria Corazzata, inserirono nelle culatte del lanciarazzi binati le granate ordinate dall'ufficiale, regolarono lo slancio per tre chilometri al secondo ed impostarono una traiettoria quasi rettilinea.
    Sarebbero stati gli ultimi dardi di quella battaglia.
    Gli ultimi colpi vibrati dall'esercito che era sopravvissuto allo scontro vedendosi ormai tributato il dimentico titolo di vincitore.
    Le squadre addette alle armi pesanti scelsero delle buone posizioni di tiro; ciascun servente batté la mano sulla spalla del suo tiratore, chi esclamando che l'arma era pronta a sparare e chi rilasciando dalle proprie labbra una sonora imprecazione a mo' d'incoraggiamento.
    I lanciarazzi da fanteria Jaegherya esplosero i giavellotti della rivolta, araldi di un cambiamento tanto sperato quanto inatteso, con uno sbuffo azzurrognolo teso ad uscire dalle bocche da fuoco ed uno schiocco super-sonico che suonò come quello di una frusta.
    I giavellotti della rivolta.
    L'emblema dell'umanità Solariana, il suo ostinato testimoniare che non era intenzionata a cedere terreno, che non si sarebbe lasciata trascinare nel buio della Lunga Notte, che avrebbe continuato la lotta fino all'ultima donna e all'ultimo uomo al fine di perseguire la vittoria finale.
    Argonye-Trai.
    La crudele ironia dei Solariani si rifletteva in quel nome. Non si poteva confidare in un senso dell'umorismo allegro e, quasi fosse un curioso gioco di parole, solare da un popolo che stava soffrendo da tre millenni e quasi sei secoli le sofferenze di una guerra costante contro un nemico più potente di lui in ogni aspetto.
    Il corintha, la lingua contratta e comune almeno a tutti i mondi della Confederazione, era l'idioma di un soldato veterano pensato per essere parlato da un soldato veterano: corto, laconico e capace di esprimere molti significati con poche parole.
    Argonye-Trai era questo.
    Una contrazione di Ardesh'ya eagonye ta-he'ha-Tarayàh.
    Restituire il dolore vecchio con uno nuovo. Riportare al colpevole l'agonia che lui aveva seminato sui campi e sulle città in rovina della Confederazione. Colpirlo all'anima con il martirio di chi aveva sacrificato tutto per dare vita a quei colpi.
    Ogni Argonye-Trai di Fattura Zero costava alla Confederazione lo strappare l'anima a dieci profughi, sottoporla a torture indicibili dentro ad una sfera di rallentamento temporale e poi arricchirla con una testata termo-nucleare ad area ridotta.
    Il “Minuto Bacio di Solaria” era vendicativo e velenoso. Chi sopravviva al primo impatto veniva assalito dalle anime chiuse nella granata e condannato alla pazzia, al percepire sulla propria pelle il dolore e sopratutto l'agonia, fisica e mentale, che aveva portato al popolo figlio della Perduta Azuras.
    I missili sibilarono verso l'alto, portatori alati di un dolore che finalmente lasciava in bocca la sensazione di stare annunciando una riparazione di guerra, s'infilarono sotto le servo-braccia del camminatore e sibilarono, veloci e con pochi colpi di jet di controllo, contro il centro del suo sistema di locomozione.
    Esplodendo una luce brillante ed un coro di urla disincarnate, ultimi lasciti terreni di anime che si erano volontariamente fatte volontarie per uno tra i peggiori fati esistenti al multi-verso, i missili aprirono grossi squarci nella corazza del camminatore. La devastazione scosse la macchina, ne fece saltare gli accordi metallici alla gamba sinistra e scaraventarono in ogni dove una folata di schegge intrise di dannazione eterna ed agonie inesplicabili.
    Perduto il saldo appoggio che prima aveva sul terreno ridotto a fossa comune, il camminatore tentennò in avanti e barcollò come ubriaco. Una seconda salva di missili, la ricarica per grazia di quella precedente, lo costrinse a crollare contro il terreno senza avere sparato quel colpo che avrebbe mutato le sorti della battaglia.
    Avvenne uno schianto atroce di metalli infernali contro centinaia di corpi umani e decine di rottami e carcasse.
    L'impatto sollevò tonnellate di terra e membra spappolate, sperdendo una pioggia di brandelli ed armi estesa a centinaia di metri.
    I centoquattro superstiti del 190.055esimo Reggimento di Fanteria Corazzata abbassarono la testa, le orecchie coperte e protette dagli elmetti integrali o dalle mani, e furono sommersi dalla zaffata di organi schizzanti umori pestilenziali e sangue e carni pressate ed armi deformate.
    Le luci sulla macchina tremolarono...e il suo muso fu raggiunto da una terza, ultima salva di missili che la ridussero ad un ammasso di metalli disciolti.
    Silenzio.
    Totale ed indiscriminata mancanza di suono nell'aria.
    Lentamente i vincitori si sollevarono, sporsero i volti da dietro i loro ripari e guardarono attoniti l'impresa compiuta.
    Ansimare stanco, rotto da accenni di singhiozzi: questo era ciò che lentamente muoveva i propri piedi sulla via del suono, il ritorno di qualcosa d'udibile.
    Centoquattro paia di occhi sbatterono le palpebre.
    Chi stava guardando le colonne di fumo elevarsi dalla carcassa della macchina e dal resto del campo di battaglia non poteva evitare, l'epilogo necessario al travaglio di sangue e dolore e lacrime, di chiedersi se non fosse stato un trucco delle Schiere Oscure.
    Una vittoria? Era davvero possibile?
    Avevano vinto?
    Zivah 'Rchereria si pulì il volto con la manica del pastrano mimetico. Un intero dito di ceneri, fumo e sangue rappreso si scrostò dalla sua pelle olivastra per posarsi sul tessuto altrettanto sporco e in più lacero come un vecchio straccio.
    Un dolore pulsante, lesto ad affacciarsi ora che l'adrenalina esplosa nelle sue vene cominciava a diradarsi, le martellava l'orecchio sinistro.
    Sulla lente del crepato eye-patch, il rilevatore di presenze ostili non pulsava più. I segnali che emetteva e richiamava a sé, attraverso un componente tecno-magico inserito nella sua anima di mech-vitria, non riconoscevano più nessun ritorno appuntabile al nemico.
    Solo centotré risposte alleate.
    Erano sbarcati su quella luna terra-formata, dimentica dai Signori e da Solaria fino al suo essere stata presa dai demoni ed essere assurta ad unico trampolino di lancio per le operazioni di riconquista del piano dimensionale di Arrini, con duecento reggimenti a piena forza.
    Due milioni e cinquecento-novantanovemila ed ottocentonovantasei caduti solo dalla parte Solariana e solo considerando quella prima battaglia terrestre.
    Zivah sentì qualcosa di caldo e pungente scenderle dagli occhi.
    Erano state le tre ore più lunghe della sua vita.
    Perla di trasparenza pura, la prima lacrima cadde dal suo volto e bagnò la terra sottostante i marziali anfibi.
    Uno si era sfondato per colpa di una raffica di schegge che le aveva strappato due dita, l'altro era coperto da una macchia di sangue bruciato...che era tutto quello che rimaneva al multi-verso del soldato semplice Yeshun Aditz.
    Provò a ricordarne il volto e non ci riuscì.
    Le venne in mente il suo IDN,
    Aditz Yeshun, IDN-2359, SSFM, Undicesimo Battaglione, Sesta Compagnia, Primo Plotone, Quinta Squadra,
    Di lui non erano rimaste nemmeno le ceneri.
    Lei e i suoi compagni dovevano sperare che gli Altissimi e Divini Signori di Azuras fossero così clementi da ammetterlo negli Elysia anche senza i riti.
    Era morto per l'umanità. Contava questo ai loro occhi? Contava il gesto che avevano compiuto su quel campo di battaglia dimenticato da tutti fino a quando non vi avevano cominciato a morire ed uccidere?
    I singhiozzi si erano fatti da fenomeni isolati a qualcosa di collettivo.
    Avevano vinto.
    Un chilometro sopra alle loro teste sfrecciarono velocissimi i profili di una squadriglia di caccia-bombardieri exa-atmosferici in volo radente. Velivoli alleati sganciati da uno degli incrociatori classe Methise in fase di ammaraggio.
    Avevano davvero vinto.
    Nel corso del giorno quinto del mese di Sacro Aidan l'Alato dell'anno della Confederazione 16.589, Solaria aveva vinto la prima battaglia dopo tre intere generazioni di devastanti sconfitte.
    L'urlo, sia pianto che giubilo esultante, s'alzò da quelle centoquattro anime come se nascesse da diecimila.
    Con impeto corse al cielo, battendosi contro nubi ancora striate dalle colonne di fumo delle esplosioni. L'eco del liberatorio pianto di trionfo dei superstiti del 190.055esimo Reggimento di Fanteria Corazzata si perse lentamente, svanendo nei grigio-scuri del primo pomeriggio...


    www.youtube.com/watch?v=2IazvA6R0pY


    Suona talmente tanto trionfale che mi sembra appropriato...

     
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  2. dany the writer
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    Vediamo come prosegue la cosa! ^^
    E per fare piacere ad un tale di nome Chelepius...OPENING THEME in spoiler!

    https://www.youtube.com/watch?v=8jynjaZz2DE


    Scelto sempre e correlato di lyrics pseudo-serie e fatte a caso perché decisamente troppo figo per non essere messo in un racconto altrettanto figo! U.U

    Imbriglia la tua rabbia, falla fluire nei tuoi pugni!
    Tremila anni di atrocità invocano il loro desiderio di vendetta
    Con le voci di famiglie spezzate e mondi bruciati, cercano una legione di castigatori a cui affidare tutto il loro astio.
    Usa questo dolore come moneta di scambio con i porci che ci hanno fatto questo!
    Volti ustionati, legami tranciati, pianeti carbonizzati...
    Quegli animali hanno infierito su di te per troppo a lungo.
    Alzati, solo così potrai rispondere alle loro offese! Sollevati, è tutta la tua gente che te lo comanda!
    Non chiedere quanti siano o come tu possa combatterli; domanda solo dove sono. Ieri fuggivi, oggi combatti, domani sarai tu ad avanzarli sopra!
    Addomestica l'infinito oceano dell'odio e liberane i carmini flutti sulle loro sponde!
    Che tutti sentano quanto dolore può nascere dal nostro morso!




    ATTO I
    “La via per Arrini”



    Capitolo secondo
    L'esordio, parte I




    Anno della Confederazione 16.591
    Giorno tredicesimo del mese di Sacra Adhara (1/16)


    Ali nere stagliate contro un letto celeste di nembi traforati da pallide spade di luce solare.
    Stormi di centinaia di creature dagli occhi rossi, spogli di iridi ma fatti di sola sclera, sbattevano le loro piumate ali nere nella cromatura smorta del cielo dell'inverno.
    La stagione fredda procedeva a falcate sempre più grandi verso le regioni centrali di quel continente prima considerato da quattro soldi ed ora dichiarato sacro suolo patrio da difendere e riconquistare ad ogni costo e fino all'ultimo miserabile millimetro.
    Frammento di una luna ora considerata strategica solo in virtù del suo trovarsi all'esordio del piano dimensionale di Arrini. Componente dimenticabile di un corpo celeste dimenticato il giorno dopo la fine della sua terra-formazione.
    Era stato messo nelle mani di una folla di miserabili, straccioni impoveriti e considerati dai mondi interni così poco da non valere nemmeno l'ingresso nell'Anagrafe Solariana. Per tutta la lunghezza di mezza generazione aveva elemosinato dalle addormentate autorità della Confederazione di Solaria un planetoide da poter chiamare casa e da poter abitare.
    La Regina di tutte le Umanità aveva accorpato qualche asteroide, li aveva chiusi in una sfera di manipolazione spazio-temporale e aveva infuso nella loro essenza rocciosa magia vergine per portare vita e possibili risorse di base da sfruttare e clonare.
    Miniere, manifatture da immettere nella sua economia per ingrossarla e da gettare in quelle delle nazioni nemiche per indebolirne i traffici, fabbriche di armi ed altri beni in fin dei conti non bastavano mai. E dato che la sua parola era legge, poteva fare lavorare quella gente in regime gratis vita natural durante per coprire le spese della terra-formazione.
    Era nato un corpo celeste troppo piccolo per essere più di una discreta luna. Trascinandolo dal nulla siderale all'inizio del piano dimensionale di Arrini, Solaria li aveva dato mezzi, modi e maniere per trasformarsi in un pullulante centro industriale e svilupparsi nel corso dei secoli.
    Aveva concluso quei lavori in quattro anni e dodici mesi. Quindi il 12.999 aveva lasciato il suo posto, amato e sempre rimpianto, al terribile Anno della Confederazione 13.000.
    Le Schiere erano emerse dalle profondità degli inferi per incominciare la loro opera di genocidio ai danni del popolo Solariano ed era stata la guerra.
    La crudele guerra. La triste lotta. Lo Squilibrato Massacro.
    L'impari confronto con un nemico sempre, costantemente ed esageratamente più potente e numeroso e meglio armato della Regina di tutte le Umanità.
    E quella luna, nominata nell'Anagrafe Solariana come Eqila, non aveva conosciuto altro che uno sviluppo politico ed industriale e sociale modestissimo sotto il peso delle leve forzate, delle requisizioni di guerra che avevano scaraventato in una volta sola più generazioni sul lastricato sentiero della morte per fame, delle tasse opprimenti per sostenere uno sforzo bellico che nel migliore dei casi portava a magrissime vittorie di Pirro e nel peggiore a disfatte imbarazzanti per la loro spaventosa gravità, invasioni di massa e raid devastanti...
    Non c'era bisogno di stupirsi davanti all'atterrita povertà di quella terra.
    Kolium nella sua integralità era la ruota più malconcia e penosa della macchina statale della Confederazione. Risucchiava quantità inimmaginabili di fondi, centinaia di miliardi di volte il prodotto lordo di decine di imperi e stati altro-umani, senza produrre un ricambio sostanzioso.
    Questo atteggiamento le era concesso come causa necessaria, ma non le faceva ottenere la simpatia di quelle regioni che uccidevano i propri operai di fatica per colmare le sue perdite e cercare di mettere in cassa qualcosa con cui sostentarsi.
    Ai reparti di quei luoghi, lontani ed illuminati da stelle che nessuno di quella galassia probabilmente aveva mai visto nemmeno in fotografia, i koliumniti apparivano come una genia di depressi straccioni anneganti nelle malattie e nel basso morale.
    Eppure tutti in Solaria ne lodavano l'incredibile tenacia nel sostenere la lotta armata con quelle creature che stavano facendo a pezzi, tranciando e sventrando la loro terra.
    Gli stormi migravano.
    Mitha Shybel, il ginocchio sinistro appoggiato sul fango congelato e la robusta suola dell'anfibio destro schiacciato con uno scricchiolante tappeto di neve prematura, aveva alzato la testa al suono del loro copioso sbattere le ali.
    Due pensierose iridi dal croma grigio-acciaio, occhi di giovane ragazza sulla primissima ventina volta a guardare il cielo, videro riflesse su di sé le penne nere e i quattro occhi rossi di ciascun volatile.
    I loro becchi adunchi, le tre zampe con artigli svirgolanti per avere presa sulle scogliere rocciose, la cresta sensoriale estesa sulla sommità del capo; parevano uno schizzo preparatorio, il disegno perverso di un pittore incapace di scegliere cosa dipinge e come farlo.
    Ma qualsiasi cosa fossero, stavano migrando.
    O forse stanno scappando, si disse Mitha, interessata più al loro volo che alle parole delle sua compagne in armi o agli ordini degli ufficiali.
    Volavano per nidificare lontano dalle terre che presto sarebbero state colpite dalla morsa della brutta stagione...o scappavano in massa da qualcosa la cui avanzata si faceva più veloce, pressante come un rullo industriale, ad ogni giorno che passava?
    «Elexa!» Chiamò il nome dell'amica e compagna di squadra, plotone e compagnia. La giovane così richiamata distolse le sue attenzioni dal soldato dei servizi logistici che le stava porgendo lo zaino tattico e le rivolse uno sguardo accigliato.
    Il logistico sbuffò e lasciò, dall'alto del vagone-trasporto appena disceso a terra, cadere lo zaino nelle braccia di Elexa, che presa di sorpresa dal gesto rischiò di farlo cadere a terra. Corposo, tinto di un marroncino verdeggiato con le cinghie rigide, la bisaccia, la coperta e gli allacci per stringerlo sul ventre durante una marcia in salita, lo zaino tattico pesava quanto un sacco di mattoni.
    Sentirselo piovere tra le braccia in quel modo fu sufficiente per urtare il carattere notoriamente irascibile della militare. «Ma dico, che darn di modi sono questi?! Dillo che me lo stai passando, almeno mi preparo e non rischio di rompermi le spalle!»
    Il logistico si affacciò dalla balaustra fortificata del vagone. Era un uomo sulla quarantina con una mascella definita, la barba di due giorni sfatta ed un occhio bionico in sostituzione ad uno che doveva essergli stato strappato dall'orbita con un'artigliata, a giudicare dagli sfregi che solcavano tutta la parte destra del suo volto cupo e rimbrottato.
    «Se uno zaino riesce a prenderti così di sorpresa non sei buona nemmeno come sacco di sabbia, ragazza.»
    «Mi sono distratta e non l'ho visto. Basta questo a definirmi scadente in prima linea?!»
    Il termine esatto era “carente”, e se in forma scritta solitamente accompagnato dal timbro ufficiale che autentificava una mancanza nei confronti della Confederazione e, quindi, la necessaria esecuzione della/del malcapitata/o in questione.
    Ma una simile finezza verbale non era cosa d'attendersi da uomini e donne che, come Elexa, erano cresciuti nelle fogne di qualche città bombardata tra la fame e gli assalti dei Rastrellanti delle Schiere Oscure.
    La sua ignoranza, benché causa di molte battute, non era qualcosa che lei aveva scelto di avere.
    Quando il Grande Esercito l'aveva coscritta nella 89.252esima Divisione di Fanteria di Linea del sotto-piano dimensionale di Ryhada Sannosh Aresheria, gli ufficiali istruttori si erano dati pena d'insegnarle soltanto come scrivere il proprio nome ed assegnarle le necessarie conoscenze per maneggiare e mantenere armi ed equipaggiamento.
    Il logistico sbuffò, le diede le spalle con un gesto di stizza, afferrò un altro zaino e lo buttò ad una compagna della fantaccina sgridata.
    Mitha si vide raggiunta dalla compagna in armi pochi secondi dopo.
    «Che vuoi?»
    «Li hai visti gli uccelli?»
    Rispondere ad una domanda con una domanda fece spuntare un sorrisetto cordiale alla semplice fantaccina, che sistemate le cinghie dello zaino si alzò e se lo mise in spalla.
    Pesava davvero quanto un sacco di mattoni.
    Gli occhi neri persi a seguire i volatili, una mano impegnata a reggere lo zaino. Elexa li guardava non con l'interesse dell'osservatrice, ma con la sorpresa della prima volta stampato sul volto dalla pelle pallida e al primo sguardo quasi malaticcia.
    «Cos'è quell'espressione da scema? Non li hai mai visti?» la canzonò Mitha.
    «No. Pensavo che fossero leggende, come l'erba o quelle piante da cui viene fuori il cibo se ci sprechi dell'acqua sopra. Esistono davvero...» Per un momento parole, le sue, lontane dal campo di battaglia ma non dalla miseria nella quale era nata.
    Mitha non poteva dirsi di origini ricche o accomodate ma in vantaggio sulla campagna aveva l'essere cresciuta, nona figlia di una famiglia di operai sotto-pagati, in uno squallido modulo abitativo abbandonato vicino ad un cumulo di scarti industriali tossici sui quali ogni giorno calavano centinaia di rapaci mutati per trovare qualche verme o qualche residuo di operaio sotto-pagato tritato dagli ingranaggi o morto di fatica mentre saldava una piastra corazzata.
    Dei volatili prima di allora li aveva visti, Elexa no.
    «Quelle piante che dici tu si chiamano alberi» mormorò Mitha saggiando la tracolla del suo fucile ad impulsi Kyrie-Namara 16.6.
    La grave cromatura sinto-carbonia scura sembrava stonare con il rosso scuro dell'uniforme, mentre andava d'accordo con il nero degli stivali anfibi e con la spoglia colorazione argentea delle placche sbalzate di plasta-carbonia applicate come bracciali, schinieri e panoplia toracica.
    Nel suo orgoglioso complesso, quell'insieme di armatura e divisa l'avrebbe protetta dalle armi delle Schiere Oscure tanto quanto un foglio del leggendario e ormai dimenticato “cartone”.
    Doveva essere stato qualcosa di molto resistente, pensava Mitha con una leggera sfumatura di sarcasmo.
    Quasi quanto il triplo surrogato di surrogato di surrogato di burro da bestiame clonato e mutato per maggiore produttività: non l'aveva mai visto e non sapeva quanto potesse essere robusto o perché venisse accostato a qualcosa di facile allo sciogliersi.
    Probabilmente era stato un materiale resistente a basse temperature che perdeva la sua capacità blindata quando lo si colpiva con un gruppo arco-termico.
    «Qui ce ne sono tanti» disse Elexa scoccando uno sguardo amorfo, occhi stretti per meglio osservare l'aliena natura di quel posto e la sua spoglia aura di antichità, ai boschetti violacei che attorniavano l'ampio spiazzo dove erano state fatte sbarcare.
    «Ma stanno morendo, credo.»
    Elexa sbatté le palpebre, davvero incredula. «Gli alberi possono morire?!»
    La fronte corrucciata in un segno di perplessità, il fucile tirato contro la spalla da un gesto rigido e poi lasciato scorrere ad appoggio della schiena, la bocca aperta come per dire qualcosa. «Non lo so, vicino a casa mia c'era un albero, ma questi hanno le foglie. Quello aveva i rami nudi e stillava olio nero...»
    «Cosa?!»
    «Mio padre mi spediva con un secchio a raccogliere quell'olio, poi ci gettava dentro un paio di pastiglie acquistate al mercato e si solidificava. A questo punto lo spaccava con un ramo e avevamo qualcosa con cui scaldarci la notte. Buttava quei frammenti nel fuoco. Lo alimentava! All'inizio per me aveva un odore molto acre, poi è sparito. Mia mamma mi diceva che era normale; doveva passare del tempo per abituarsi o per perdere l'olfatto...»
    «E tu ti sei abituata?»
    «No» ridacchiò la fantaccina. «L'intelligenza Artificiale che ci ha analizzate all'Atto d'Arruolamento ha detto che io ho perso “il senso dell'olfatto” e ho “quello del gusto” ridotto. Mi ha spiegato cosa voglia dire: in pratica io non sento odori e percepisco poco i sapori.»
    «Ecco perché riesci a mangiare quelle schifose barrette energetiche che ci danno assieme alle razioni! Sei come un bidone dell'immondizia!»
    «Ehi!» Mitha le sferrò un pugno sulla spalla. «Prima dell'esercito la cioccolata l'ho mangiata una sola volta perché l'avevo rubata ad uno dei piani superiori! Non puoi sgridarmi se ora la mangio ad ogni occasione che mi capita...potrebbe non riaccadere più.»
    «Da piccola rubavi le cose?»
    «Si! Dolcetti, monetine, oggetti da scambiare...se potevo portare a casa qualcosa lo facevo. Una volta ho rubato un fermacapelli di bronzo. È andato distrutto nell'Evento, ma era il mio tesoro più grande. Tu non hai mai rubato niente?»
    Era l'innocente domanda di chi era stata cresciuta ai margini quasi più bassi della società Solariana, in quella massa senza nome e senza identità che popolava i ranghi delle fabbriche, tra le squallide condizioni degli operai sotto-pagati del Pozzo Industriale 33-37NES di una forgia asteroidale terra-formata in malo modo da una mega-corporazione dimentica di chi ci lavorava.
    Ma presentava una realtà rosea se posta a confronto con quella vissuta da Elexa.
    «Per potere avere un fucile e combattere dovevo fare vedere alla Resistenza dei Tunnel che valevo qualcosa. Non danno niente per niente a noi profughi, ma io volevo combattere a tutti i costi. Allora una notte sono uscita, ho strisciato in fanghiglie piene di ossa umane fino ad un accampamento Assyriano...hai presente quei mercenari clienti delle Schiere...e li ho guardati a lungo.»
    Un'espressione sognante apparve sul volto della fantaccina impegnata a narrare la prima volta in cui aveva sradicato delle vite.
    «Erano una trentina, facevano la guardia ad un incrocio bombardato. Avessi visto quanto cibo e quante armi avevano quei bastardi!» gettò un'occhiata al suo fucile, addolcendo gli occhi come una madre orgogliosa del proprio bambino.
    Adesso anche lei aveva delle armi, delle vere armi, con cui combattere per “la Regina” e sopratutto per restituire ai nemici il favore. Il suo mondo era stato mandato in rovina, suo padre era stato sventrato da un Anubith e i suoi resti divorati da un ghouria.
    Davanti ai suoi occhi.
    E lui era stato il suo unico punto di riferimento, l'unico parente, l'unico a dirgli com'era morta sua madre.
    Facendosi esplodere contro un carro armato delle Schiere. Si era ammalata qualche mese dopo averla data al mondo in un bunker.
    Era stata avvelenata dalle radiazioni liberate dalle bombe Assyriane.
    Piuttosto che togliere il poco cibo a disposizione per mantenerla in vita ed in condizioni sempre più inutili, aveva scelto di scagliarsi contro la prua di un carro armato con una bomba nucleare tra le braccia ed un grido d'odio sulle labbra.
    Ne aveva mandati agli inferi almeno due dozzine di quei bastardi.
    «Ho strisciato e da una cassa sono riuscita a rubare loro una bomba a mano. Una come le nostre, di quelle che quando le lanci esplodono e sparano ovunque schegge di magia Thanatos. Gliel'ho buttata in mezzo ai piedi alla prima occasione. Dei, quanto è stato bello vedere i loro corpi spaccarsi in mille pezzi! Poi ho rubato un fucile e l'ho scaricato sui feriti. Ho finito i colpi ma due di loro erano ancora vivi. Il primo l'ho ucciso spaccandogli la testa con il calcio del fucile, che però mi si è spaccato tra le mani. L'altro...pugnala pugnala e pugnala! Colpisci agli occhi, così non ti possono vedere e tu puoi continuare. Ho riso tutto il tempo. Ad ogni colpo che davo era come se un pezzo della mia terra mi venisse dato indietro.»
    Mettendosi le mani sui fianchi, Elexa sospirò. «Fu bellissimo. Trenta morti ed un sacco di roba portata a quelli della Resistenza. Mi diedero un fucile, una bomba con cui farmi esplodere contro un carro armato se fosse stato necessario ed una giacca e degli stivali. Capisci, Mitha? Una giacca e degli stivali! Non sapevo nemmeno come fosse averne una indosso, non sentire freddo e non camminare scalza! E poi...sono finita qui. La Regina mi dice “vai ed uccidi”, io annuisco, vado ed uccido. E sono pure pagata per farlo...darn, lo farei gratis anche se fosssi cieca, sorda e muta.»
    Mitha le rivolse uno sguardo sconvolto. «Una festa, non posso dire altro...quanti anni avevi, solo per sapere?»
    «Nove e mezzo, perché?»
    «Niente...te lo chiedevo così...sai, per sapere e conoscersi un po' meglio...nove anni e mezzo...io a nove anni era già tanto se sfuggivo agli psi-commando che mi volevano prendere a colpi di calcio di fucile in faccia perché rubacchiavo qualche frutto...»
    «Sei cresciuta nel lusso, tu!» Esclamò Elexa senza rabbia o invidia per le “migliori condizioni” nelle quali era vissuta l'amica.
    Una voce altera tagliò a metà le loro chiacchiere. «Voi due! Piantatela di farvi le trecce a vicenda e cominciate a fare i soldati, se ne siete capaci! Ci stiamo per mettere in marcia!»
    Entrambe le fantaccine si girarono e scattarono sull'attenti come cadette. Il tenente Yatah Tzahar non si degnò di una gentilezza come riconoscere la velocità con cui si erano disciplinate e rivolse loro una reprimenda resa più astiosa dal suo tono da nobildonna.
    «Visto che avete tanta voglia di parlare, allora sarete le avanguardie. Spero che un Anubith senta le vostre chiacchiere e vi apra il collo a morsi. Se non altro non avrò perso niente di utile e la compagnia avrà guadagnato un po' di disciplina.»
    «Aye, signore» mormorano le due donne, inquisite dagli occhi dalle iridi di rubini della loro ufficiale superiore. Era una originaria dei mondi-fortezza, una di quelle senz'anima che nascevano già grandi e che come prima parola chiedevano a Solaria, che credevano essere la loro unica madre, un fucile ed un fronte dove poterlo usare.
    Con un solo sguardo sapeva terrorizzare sia Mitha che Elexa.
    «Incapaci ragazzine...» sputò Yatah distogliendo lo sguardo dalle due guerriere ed allontanandosi a grandi passi. Scalpiccio imperiosi, suole di stivali identici a quelli delle sue sottoposte ma chiamanti un potere ed un grado molto più alto.
    Lei aveva la magia nel sangue.
    I suoi occhi dardeggiavano di una luce carmina, identica al colore della spada che portava di traverso sulla schiena. Nessuno l'aveva mai sentita parlare con un tono di voce leggero, non si era mai udito uno scherzo o una canzonatura allegra uscire dalle sue labbra.
    Nella divisione si diceva che non fosse nemmeno realmente nata già adulta in un pod, ma che la Confederazione l'avesse letteralmente fabbricata incollando tra loro tanti pezzi di altre donne d'alto grado e grandi poteri già morte in precedenza e tramite lei tornate a servire la Regina di Tutte le Umanità.
    Soldati del genere esistevano e venivano realmente impiegati per sopperire alle perdite ed ingrossare i ranghi, ma non era il caso di Yatah.
    Mitha rivolse un cenno all'amica. «Qualcuno si è svegliato nella settimana sbagliata, qui...»
    «Quella non ha settimane sbagliate, te lo dico io. Quella non ha niente tra le gambe; dietro l'uniforme ha soltanto un'altra uniforme...»
    «Vi sento» disse loro il tenente facendo un cenno con l'indice alle sue orecchie.
    Udito potenziato e selettivo. Un dono di nascita al pari della la vista più fine o il corpo progettato per sopportare gravità e sforzi maggiori.
    «Io non volevo dire che...» Prima che Mitha potesse concludere il suo patetico tentativo di scusa, Yatah la congedò con un cenno della mano ed un pugno di parole.
    «Nessun problema. Ho già due volontarie per tutti i turni di sorveglianza da qui alla fine del mese. Mi hai fatto un favore. Quanto a te» squadrò malevola Elexa. «Se la prossima volta ti sento dire battute come quella su di me, sappi che ti spedirò a sminare un campo anti-umano. Da sola. Senza strumenti. Con le mani legate e gli occhi bendati. Vedi un po' tu cosa vuoi fare...»
     
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