Blue Eyes

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  1. MidoriMoe
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    Ps:ho la tastiera internazionale, non riesco a mettere la i, e od o con l'accento ;(


    Capitolo 3 : Terre dimenticate da Dio –Where did Jesus go?

    La fede è una corda alla quale si rimane appesi, quando non ci si impicca.

    Sören Kierkegaard

    «Jessie? Jessie? – mi scuoteva mia madre per svegliarmi – su forza alzati che è tardi. Oggi bisogna andare a trovare il nonno in ospedale. I medici hanno detto che ieri le sue condizioni sono peggiorate. Forza alzati! Potrebbe essere l’ultima occasione per vederlo e salutarlo!» concluse mia mamma uscendo dalla mia stanza.
    Svogliatamente scivolai fuori da sotto le mie coperte calde. D’istinto presi il cellulare e guardai se c’era qualche messaggio. In verità, volevo controllare se il mio ex ragazzo aveva risposto alla mia risposta secca. Nulla si visualizzo sulla mia schermata. Speravo, confesso, che mi scrivesse qualcosa come “mi spiace che le cose tra di noi sono giunte a questo punto” oppure “ mi sono comportato da infame e vigliacco. Hai ragione ad avercela con me. Spero che un giorno potremmo riallacciare ed avere un rapporto d’amicizia. In fondo, sei stata una persona molto importante nella mia vita!” Ma chi volevo illudere, anzi perché continuavo ad illudermi? Le cose tra me e lui non si sarebbero più sistemate, mai più. E dopo essermi scrollata queste fantasie adolescenziali, chiamasi anche “filmini mentali”, mi vestii e preparai per andare in ospedale con i miei.
    Mio padre sfrecciava in macchina. Aveva assunto in volto una espressione crucciata. Mi chiesi se era dovuta a causa della situazione di mio nonno oppure a causa del litigio tra mia mamma e lui. Non riuscii a darmi una risposta. Quando arrivammo alla nostra destinazione, i miei si precipitarono verso la stanza di mio nonno. Io rimasi indietro. Camminavo più lentamente dei miei, poiché volevo osservare al meglio le persone che erano in quella prigione, chiamato ospedale. Scrutare le loro facce sofferenti, sentire i loro lamenti, vedere volti dei loro parenti disperati e senza un barlume di speranza nei loro occhi. Facevo ciò, solo perché volevo trovare un motivo, solo uno che mi facesse cambiare idea su ciò che quella sera mi sarei accinta a compiere. Quelle facce rugose segnate dalla malattia ,i loro occhi vitrei e persi creavano dentro in me sono un sentimento di impotenza, di vergogna di fronte al grande Signore e alla fredda morte che abbattono le vite degli essere umani nello stesso modo in cui abbattono le nave nel gioco di “Battaglia navale” : R1 in P0. Una giovane donna sdraiata su un letto, in una delle stanze precedenti a quella del mio caro nonno, mi rimase impressa. Ella era bendata agli occhi. Pensai quanto possa essere crudele rimanere in vita e non poter gustare con gli occhi le bellezze di questo mondo. Se non posso osservare ciò che mi circonda, anzi se per il resto della mia vita l’unica cosa che percepirò è il buio e niente altro, preferirei in tutta onestà, essere circondata dalle tenebre anche con corpo e anima, abbandonando così una esistenza pietosa.
    La voce di mio padre che mi incitava ad entrare, invece di rimanere immobile come una statua in mezzo al corridoi, mi riportò alla realtà di quel giorno. Una volta nella stanza dove si trovava il letto di mio nonno ebbi un mancamento. In quel momento mi sentì come Dante nel Canto XXXIV della dell’ Inferno, “Com'io divenni allor gelato e fioco,nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco...”
    Fissare il malato e debole corpo sul letto d’ospedale di mio nonno, mi fece tornare alla mente il ricordo di due persone, aprendo così ferite che mai si erano rimarginate fino a quel momento. Ormai era giunto il suo momento. Anche per lui sarebbe arrivato il treno della morte. Un treno dal quale non si può più tornare indietro. Un biglietto di sola andata per gli inferi. Mi avvicinai alla spalliera di metallo del letto. Accarezzai la mano di mio nonno. Dissi qualche parola di consolazione e poi me ne andai, cercando ti tenere a freno le lacrime che prepotentemente cercavano di scendere dagli occhi.
    «Jessie, so che è difficile tutta questa situazione!Ma devi farti forza anche per tuo padre. Ti ricordi come ha reagito alla morte di tua nonna, di sua madre. Su dai, quando ti calmi ritorna di là!» cercò di consolarmi. Come poteva dire così? Dopo quello che papà fece e stava facendo. Cercai di non trasalire. Le feci un gran sorriso e la seguii, portandomi di nuovo in quella stanza impregnata di morte e infermità.
    Dopo un’oretta tornammo a casa. Guardai l’orologio a muro appeso in cucina. Mancavano ormai poche ore. Solo poche ore. Questa logorante agonia mi avrebbe finalmente abbandonata per sempre. Era solo questione di poche ore.
    ***
    Un meraviglioso cielo notturno punteggiato da un’ immensità di stelle luminose vegliava su di me, durante il mio viaggio per strade buie e deserte. Il conta chilometri della macchina continuava a salire lentamente. Prima di uscire di casa dissi a mia madre che sarei andata fuori quella sera. In quel momento mi sentivo in uno stato di profondo dispiacere. Mia madre da un lato non ne aveva colpa, o solo in parte. Io però non potevo più continuare a far finta di vivere. Dentro di me, era tutto secco e morto. Nessun fiore avrebbe mai più potuto sbocciare in me, in questa aridità emotiva.
    Dopo aver guidato per una mezz’ora lungo una strada principale, decisi di svoltare per una strada secondaria la quale , secondo miei vecchi ricordi da bambina, conduceva all’inizio di un boschetto. Raggiunta la mia meta mi inoltrai, sempre rimanendo alla guida, all’interno del bosco, seguendo una strada sterrata. Potei proseguire all’interna di questa selva per ottocento metri, poi dovetti arrestarmi davanti al tronco di un albero caduto. Spensi l’automobile. Rimasi in silenzio e al buio per un paio di secondi. In seguito decisi di scendere o meglio inconsciamente lasciai l’abitacolo dell’auto. Oltrepassai l’ostacolo e continuai a proseguire a piedi. Giunsi vicino ad una cascata, per mezzo di un ponte di terra naturale. In mano avevo il mio diario personale. Mi porsi vero la direzione di caduta della cascata. Guardai la fine di questa. Feci dei calcoli veloci nella mia mente e poi decisi. Era il posto giusto per finirla. Era il luogo più’ ideale per non essere mai più ritrovata.
    Ero in uno stato da semi cosciente. Quasi come se fossi sotto l’effetto di qualche stupefacente. La ragione non aveva più potere sulla mia mente. Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso. Farneticavo parole e frasi sconnesse e alogiche. Da quel momento in poi il tempo scorse velocemente. Ricordo che gettai il mio diario giù dal ponte e che subito dopo sarebbe sarebbe giunto il mio turno. Mi posizionai per saltare. In quel istante la mia mente si riempi’ di memorie, voci, flashback. Sembrava come se ci fosse un tornado inarrestabile dentro la mia testa. Per istinto chiusi gli occhi e feci un gran respiro. Dentro di me dicevo « non si può tornare indietro. Ormai e troppo tardi. A volte bisogna fare scelte estreme, per risolvere i problemi dell’animo».
    Mi sporsi ancora un po’. Poi alzai il piede destro e lo misi in avanti verso il vuoto. «Addio» dissi ad alta voce. Stavo per lasciarmi andare quando di colpo sentii un profumo a me già noto. Aprii immediatamente gli occhi e mi guardai attorno. Cercai di sentire quel profumo nuovamente. C’era davvero. Ebbi un tuffo al cuore per quei brevi secondi. Continuai a guardarmi in giro, anche un po’ terrorizzata e incredula. In quell’attimo dimenticai la cascata. Mi spostai in direzione del profumo o almeno verso la probabile zona da cui proveniva. E fu allora che vidi abbastanza chiaramente una figura, la figura. Il mondo e lo scorrere del tempo sembravano essersi fermati. Non sapevo se credere a quel che vedevo, anche se non molto chiaramente, oppure no. Rimasi immobile a fissarla e altrettanto fece la figura. Cercai di focalizzare meglio la mia vista su essa. Quella stasi sia fisica che mentale fu spezzata da un urlo aggricciante, proveniente dall’interno del bosco. Le urla sfacevano sempre più vicine e nitide, come pure le parole. Una ragazza stava chiamando aiuto. Mi sentii in dovere di provar a raggiungerla. Prima tuttavia rivolsi lo sguardo nuovamente verso la strana figura. Conturbata mi accorsi che davanti a me non c’era nessuna figura.
    Non sentii più urlare. La voce di donna era stata sostituita da un paio di voci maschili. La paura iniziö ad invadere il mio animo. Li sentivo avvicinar verso la zona in cui mi trovavo. Cercai un nascondiglio ma fu invano. Ad un certo punto comparve una ragazza, tutta sporca di terra dalla testa ai piedi e pure di sangue. La ragazza era sotto schock e continuava a ripetermi che dovevo aiutarla a uscire da quel inferno prima che i suoi rapitori si accorgesse. Non sapevo cosa fare. Mentre stavo provando a tenere un discorso sensato con questa ragazza. Alle nostre spalle arrivarono tre tizzi rozzi e trasandati. Erano i suoi rapitori.
    La nostra fuga ebbe inizio. Io e la ragazza correvamo più velocemente che potevamo, ma loro erano sempre dietro di noi. Correvo senza guardare dove andavo o a cosa andavo a sbattere contro. Ad un centro punto mi fermai. Dietro di me non c’era la ragazza. Il panico mi assali’. Ebbi la sensazione che quegli uomini l’avessero presa e che ora stessero provando a catturare me. Ricominciai a correre. Dopo un po’ li vidi dietro di me in lontananza. Cercai di correre più veloce possibile. Intanto mentre correvo cercavo di scovare un nascondiglio. Niente però. Dopo una lunga corsa mi ritrovai nel cortile di una vecchia casa abbandonata. Mi ricordava qualcosa ma non sapevo cosa. Quei tre uomini si facevano sempre più vicini. Decisi di rifugiarmi all’interno dell’abitazione.
    Una volta entrata in quella casa, tutto ciò che era succedo dopo, io ancora oggi non lo ricordo. Rammento solo un flash di me che cade nel vuoto, nell’oscurità . Ero giunta al capitolo finale del libro della mia vita?

    Edited by MidoriMoe - 3/9/2014, 09:42
     
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7 replies since 10/3/2014, 11:51   181 views
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